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Anteprima. Livia Franchini. Gusci

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Livia Franchini, Gusci

Livia Franchini, scrittrice e traduttrice (ha tradotto Michael Donaghy, Natalia Ginzburg e James Tiptree Jr.) con il suo romanzo d’esordio Shelf Life che ha ottenuto un buon riscontro di critica su The Guardian, arriva ora in Italia pubblicata da Mondadori con la traduzione di Veronica Raimo. Il titolo italiano del suo romanzo è Gusci e si potrà trovare nelle librerie a partire dal 26 maggio prossimo.

Gusci colpisce per l’originalità con cui viene raccontata la fine di una relazione d’amore, attraverso una lista della spesa preparata da Ruth e Neil, due fidanzati (che si lasceranno prima di andare a fare quella spesa) dove ciascun capitolo corrisponde a un ingrediente della lista che fornisce il pretesto per ripercorrere le tappe della loro storia d’amore, naufragata dopo dieci anni – lui ha lasciato lei – attraverso rimbalzi nel tempo che permettono di ricostruire la personalità e la vita dei protagonisti, in primo luogo Ruth impegnata nel difficile compito di ritrovare la propria identità non più modellandola sulle aspettative altrui: il fidanzato, la famiglia, i colleghi di lavoro, gli ospiti della casa di riposo dove lavora come infermiera.

Tramite gli ingredienti della lista il lettore si trova catapultato ora ai tempi in cui Neil vede per la prima volta Ruth attraverso il vetro di un’agenzia viaggi (lo zucchero), ora all’epoca dell’adolescenza di Ruth, a curiosare in una chat tra compagne di scuola (il deodorante) e ancora nel tempo di un bellissimo viaggio a Roma fatto da Ruth con l’amica, che di quel viaggio scrive il diario (la pizza).

Così, passando per i pomodori, i gamberetti, le fragole, il miele, la zuppa e tutti gli altri ingredienti, la storia va componendosi come un puzzle dove i “pezzi” della lista (e della vita della trentenne Ruth) a poco a poco trovano il proprio posto.

È proprio questa lista della spesa che rende l’impianto narrativo particolarmente interessante insieme alla scrittura frizzante a tratti tagliente, della Franchini che in questa “storia d’amore e guarigione” riesce a catturare il lettore fin dalle prime pagine, curioso di arrivare alla fine della lista per sapere cosa ne sarà delle (nuove) vite dei due ex fidanzati, per capire se Ruth si salverà dal naufragio amoroso: Zuppa, ho deciso che fa bene. Non devi masticare e se tieni gli occhi puntati dentro la scodella non ti accorgi che il livello si abbassa. E così faccio. È questo il piano prestabilito e mi ci attengo religiosamente – mi sono convinta che, se seguo alcune regole arbitrarie, mi salverò.”

Quello che è certo è che non manca nessun ingrediente a questo esordio di Franchini per essere considerato notevole, vi sono una pluralità di registri narrativi a seconda dell’ingrediente raccontato, gli stereotipi delle storie d’amore sono completamente disattesi e soprattutto si respira tra le pagine un’aria di iper-contemporaneità nella trattazione di un tema eterno come l’amore, anche quello per se stessi, che in queste pagine emerge in tutta la sua complicata bellezza.

Oggi su Satisfiction su concessione di Mondadori presentiamo un estratto in esclusiva di Gusci.

Silvia Castellani

#

MELE

Ruth

Adesso

Arrivata a casa, chiudo la porta e mi sdraio sul tappeto, tra il comodino e il divano. Mi piace stare qui. È un posto che ho scelto. Mi fa sentire meglio rispetto a quando mi siedo sul mio lato di divano. Da qui non c’è pericolo che mi cada l’occhio sull’altro lato.

Leggo il dépliant sul percorso Kübler-Ross di elaborazione del lutto. Ci sono cinque fasi fondamentali:

  • Negazione

  • Rabbia

  • Contrattazione

  • Depressione

  • Accettazione

La faccenda non mi è del tutto nuova. L’ho studiata al college. Ma i ricordi sembrano lontanissimi, come se rileggessi vecchi appunti scritti a mano e riconoscessi a stento la mia scrittura. È da tanto tempo che non pensavo a queste fasi: quando muore qualcuno nella clinica, gestire il contraccolpo emotivo non è di nostra competenza. Spetta ad altri professionisti. Noi dobbiamo limitarci a chiamare il dottore, confermare l’orario del decesso, pulire il letto, rassettare la stanza per l’arrivo del prossimo paziente. Occorre che la vita segua la morte con efficienza. Le emozioni te le lasci alle spalle.

Fisso quei paragrafi sulla pagina, scomponendo ogni parola nella sua definizione di due righe. Li studio, cercando di fare i calcoli che farebbe Neil. Che significano queste parole? Cosa vogliono da me? I contabili sono animali a sangue freddo, diceva Neil dei suoi colleghi stakanovisti. Ma a quanto pare faceva i conti pure su noi due: deve aver calcolato che dieci anni fossero sufficienti.

Io la vedo così: non servono due metà perfette per comporre un’unità. Ci sono tanti modi di tagliare una mela. Durante tutta la nostra storia, ho tentato di occupare il minor spazio possibile in modo che lui potesse allargarsi a dismisura. Gli piaceva ispezionare il mondo come fosse un frutto, cercandone il punto più morbido e cedevole. L’avevo capito subito che nella nostra unione io contavo meno di metà. Quando ancora uscivamo con gli amici, ci scherzavo su, dicevo che ero l’altro quarto di Neil. Lui la prendeva sul personale.

«Siamo fatti della stessa sostanza, Ruth. Non abbiamo segreti: come parti dello stesso corpo.»

Ripenso a questa frase e la parte di me che sa cosa significhi essere parte di qualcosa si sfalda al pensiero, come mela cotta. Non mi è mai piaciuto vederci come unità distinte – la parte di me che non era lui mi faceva sempre un po’ di paura. Non ho escogitato un piano di emergenza, non ho a che aggrapparmi, se non scontatezze, pescate chissà dove, dalla gente, dalla televisione. «Andrà tutto bene.» «Sei coraggiosa.» «Forza, ragazza!» È capitato anche a me di dirle queste frasi a qualcun altro, sebbene non sia facile beccare il tono giusto.

Neil è stato il mio unico compagno: il mio unico compagno a lungo termine nel vero senso della parola. Non ci sono stati molti uomini prima di lui, e comunque a che serve pensarci adesso? Magari quel dolore, come dice il dépliant, ci fa sprofondare in un buco nero dove non c’è altro che sofferenza.

Sul tappeto il mio corpo si prepara all’urto dell’assenza, ma poi l’impatto non arriva. Continuo a leggere. Per ora, mi pare, mi sono attenuta a tutto quello che dice il libro.

All’inizio ovviamente ero disperata. Mi sentivo spaccata a metà, con il ventre molle tutto esposto. Non potevo farmi vedere in pubblico. Non sono andata al lavoro. Ho detto che ero malata, e in un certo senso lo ero, o mi comportavo di conseguenza. Non mangiavo, non mi lavavo i capelli e non cambiavo i vestiti. Era un sollievo che fosse tutto così naturale. Piangevo, o dormivo o mi aggrappavo alle coperte in lacrime fino a quando mi addormentavo. Una settimana come un gorgo; nero, cieco.

E poi è arrivato il momento di tornare alla casa di riposo. Era come se qualcuno avesse premuto di nuovo l’interruttore. Mi sono rimessa in sesto, come si dice – o quantomeno mi sono rimessa, in modo precario perché il solo fatto di riaffacciarmi al mondo necessitava di tutta la mia concentrazione. Una cosa estenuante. Per giorni, dopo essere tornata al lavoro, mi ritrovavo ai piedi del letto di un paziente, nella luce pomeridiana, e per un istante sentivo il dolore attanagliarmi le ossa, come se volesse farmi crollare in ginocchio. Spesso le braccia mi sembravano così pesanti da non riuscire a sollevarle. Le osservo ora, tese sopra la mia testa: sembra un ricordo.

Secondo il dépliant al momento dovrei essere arrivata alla fase della rabbia. Ma non provo rabbia, per niente. È possibile che abbia saltato a piè pari questa fase? È difficile provare rabbia nei confronti di qualcuno se ciò che ha fatto non era per ferirti, ma solo per il proprio benessere. (Non ha anche lui il diritto di essere felice?) È concesso essere arrabbiati in circostanze come queste? (Mi manca.) Il dépliant non lo specifica. Non ha anche lui il diritto di essere da qualche altra parte, a fare qualcos’altro insieme a un’altra persona?

Ma sono dieci anni. Dieci anni. Cristo! Tremila seicento cinquanta giorni, più o meno, trincerata nell’equazione inventata da un altro. Dieci anni passati ad assecondare il costante bisogno di cambiamento di Neil. Su base giornaliera, il numero di cose che ho fatto per lui è praticamente infinito. Soltanto negli ultimi sei mesi:

Quando pensava che le fondamenta per un futuro sostenibile risiedessero nelle chips di cavolo kale essiccato, ero andata io a comprare il cavolo e a farlo seccare nel forno, irrigandolo con l’olio di oliva in spray e il sale marino, come consigliava il sito che aveva aggiunto alla lista dei preferiti. Lo strato inferiore si era attaccato alla teglia come carta da parati, e quello superiore era troppo croccante, al limite del bruciato. Neil si era messo a ridere e niente chips, non le avevamo neppure assaggiate. Avevo buttato tutta la teglia senza nemmeno prendermi la briga di pulirla. Avevo cominciato a collezionare i coupon di Planet Organic. Volevo continuare a sostenerlo. Ero buona. Lo sapevo che ero buona. Sono brava a essere buona con gli altri. Accetto il fatto che tutti abbiano dei desideri complessi.

Oppure quando aveva letto che il Bikram Yoga offriva l’unica strada veramente sensata per raggiungere la chiarezza. Desiderava tanto una sauna. Avevamo uno stanzino dove accumulavo i miei vestiti vecchi e le mie riviste. Me ne sono disfatta, ho comprato dei bei cuscinoni bianchi e candele al gelsomino che secondo lui inducevano uno stato meditativo. Quel sabato trascorso in mutande nell’appartamento sigillato, con i termosifoni e il forno pompati al massimo. Avevo addirittura inumidito dei cazzo di stracci in una pentola per avvolgerglieli intorno alla testa e raggiungere il grado richiesto di calore e umidità.

Rabbia: vado a caccia di rabbia nel mio cervello. Pensavo di averla trovata, appena un attimo fa. Ma non è facile rintracciare quella scintilla mentre sto distesa con gli arti a peso morto sul tappeto. Ricordo che l’ho sentita trafiggermi il cervello, bianca e affilata come il dolore di un osso fratturato, la sera in cui se n’è andato. E poi è sparita.

Forse perché la vita ha ripreso a scorrere. Ho tenuto botta. Due settimane, poi tre. Seguo il pulsare sottomarino della quotidianità. Non faccio niente a parte andare al lavoro e tornare dal lavoro. Dentro casa, seguo sempre lo stesso percorso, le zone neutrali desensibilizzate: il corridoio, il tappetino del bagno, gli spazi duri tra i pezzi morbidi dell’arredamento. Galleggio nella vasca da bagno per un’ora, senza che il mio corpo sfiori gli argini, poi attracco al comò, prendo la spazzola, la crema per il corpo, esagero col fondotinta. Le sue cose sono ancora lì. Mi sono detta di ignorarle. Il dépliant dice che non va bene. Continuo a leggere.

© 2020 Mondadori

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