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Cathleen Schine, Io sono l’altra

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Io sono l’altra, undicesimo romanzo di una scrittrice la cui incessante produzione si divide, da sempre, tra le librerie e le colonne del New Yorkers, un libro che, uscito in Italia per Mondadori, non può che affascinare colore che si lasciano tentare dalla bellezza della parola scritta. E’ un dono quello che Cathleen Schine ci ha fatto quest’anno, un accurato esperimento letterario, una ricerca linguistica, attraverso la storia della crescita di due gemelle identiche dai capelli rosso acceso.

Daphne e Laurel condividono sin da bambine una passione per il linguaggio. La loro bibbia è il dizionario Webster’s New Internation, la loro ossessione, le parole eccentriche e originali. Chiodo fisso che inizia a spaventare la madre, che le incoraggia, invece, a guardare la televisione. Ma questo non impedisce alle due sorelle di trattare la lingua come un vero e proprio culto. Il resto della storia, si intreccia con la loro vita famigliare, profilando con precisione e accuratezza molteplici personaggi. Un libro che è quasi un dipinto, uno spaccato, un affresco sul muro  della Manhattan degli anni Ottanta.

Tra lingua classica e innovazioni formali l’autrice scrive un romanzo sofisticato, che non manca del senso dell’umorismo, che da sempre caratterizza i suoi libri, e si destreggia tra cambi temporali e profonde analisi delle relazioni interpersonali, che costruiscono un romanzo disilluso ma non straziante sulle possibilità e le controversie che porta la parola scritta.

 

Di seguito, un estratto.

#

TO SWOP. v.a. [Of uncertain derivation.] To change; to exchange
one thing for another. A low word.

A Dictionary of the English Language by Samuel Johnson

Barattare; scambiare una cosa con un’altra. Termine di uso
popolare.

Che senso aveva essere gemelle, se poi non potevi fare il classico trucco dello scambio di persona? Seduta a schiena ritta alla scrivania della reception di “DownTown”, Laurel fronteggiava l’ingresso senza leggere, cercando di godersi lo scambio ma scoprendolo noioso. Doveva ammetterlo, Daphne aveva ragione: il suo lavoro consisteva nel sedere alla scrivania, rispondere al telefono e annunciare i visitatori, ma il telefono non squillava mai e non si presentava nessuno che volesse o avesse bisogno di essere annunciato. Laurel sbirciò nell’ufficio principale. Nessuno alzò gli occhi su di lei. Finse di essere una del gruppo e cominciò ad aggirarsi tra scrivanie e cubicoli, sbalordita dalla trasandatezza che la circondava. Malgrado quello che le aveva detto Daphne, si era immaginata un ambiente più affascinante, invece vedeva solo colonne pericolanti di giornali lungo le pareti, piccole scrivanie schiacciate dal peso di enormi macchine per scrivere, telefoni, tazze sporche e posacenere traboccanti. Le sedie girevoli erano bloccate ai loro posti dalle schiene soffertamente incurvate e dai piedi tamburellanti dei rispettivi occupanti. In uno spazio chiuso da vetrate a mo’ di acquario una donna alta e un uomo basso agitavano i pugni l’una contro l’altro, silenziosi dietro il vetro come pesci esotici. Laurel si fermò a un tavolo pieno di dizionari e guide di stile. Finalmente qualcosa che meritava un po’ di attenzione. Guardò una bozza imbrattata di inchiostro su cui era china una donna dai capelli neri screziati di grigio e disse:

«“Spietato”, con la i».
«Oddio, che imbarazzo» ribatté la donna. «“Lo spretato atteggiamento dell’amministrazione Koch…” Mi chiedo come si comporterebbe un prete.»
«In modo spietato.»
La donna rise e disse di chiamarsi Becky. Laurel ricordò appena in tempo che avrebbe dovuto essere Daphne, si presentò come sua sorella e chiese: «Sei tu che correggi i compiti di tutti?».
«Sì. Sono l’eminente responsabile della revisione dei testi.»
«Il lavoro dei miei sogni.»
Becky sbuffò con il naso. «Certo, come no.»
«No? Io invece penso che mi divertirei. Meglio che starmene seduta all’ingresso a fissare una parete sporca.»
Quando fece ritorno alla sua postazione, Laurel aveva con sé una pila di bozze da leggere e correggere. Era solo una prova, aveva detto Becky. Usava già quattro o cinque collaboratori esterni. Ma forse, se avesse fatto un buon lavoro, qualcosa sarebbe venuto fuori anche per Laurel, che lei chiamava Daphne. Recandosi all’appuntamento con Daphne, Laurel pensò di avere già fatto un lavoro eccellente. Sua sorella ne sarebbe stata compiaciuta. Nessuno aveva sentito la mancanza della vera Daphne, e per di più la finta Daphne aveva fatto una tale impressione sui poteri forti che la vera Daphne sarebbe stata (probabilmente) promossa. Quando fece la sua trionfale irruzione nel caffè, sua sorella non c’era ancora. Laurel sperava che i bambini non l’avessero rinchiusa nello sgabuzzino dei cappotti o qualcosa del genere. Nell’attesa ordinò un cannolo, poi un altro per celebrare il suo successo, poi un cappuccino per mandarli giù. Satolla e insonnolita, pensò: ce l’ho fatta. Non solo ce l’ho fatta, ho anche dato una spintarella alla carriera di Daphne. Sentendosi leggermente in colpa, si chiese come potesse essere andata la giornata di sua sorella. Daphne non aveva un temperamento forte nelle situazioni nuove. Se l’avesse avuto, avrebbe scoperto lei stessa Becky e l’ufficio revisioni. Euforica per il proprio successo, Laurel provò una fitta di rimorso al pensiero di Daphne, un’innocente assediata da una quantità di piccoli, dolci selvaggi.

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