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Javier Marias e Shakespeare: Domani nella battaglia pensa a me

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La morte e l’incantamento

Trovarsi con una morta nel letto (che non è lo stesso che andare a dormire e svegliarsi con le voci dei fantasmi che ti imprecano contro, come succede a Riccardo III; ma la morta è destinata a divenire fantasma e la sua voce dovrà pur tornare, e torna a farsi sentire, in altro modo: come vincolo); trovarsi con una morta nel letto, che è letto di lei e del marito, a Londra per lavoro, che lascia libero il campo (il campo di battaglia del letto, se l’amore è anche guerra e furore, e può condurre alla morte).

Di là, nella sua cameretta, il bambino che finalmente dorme (ma si sveglierà nel corso della drammatica notte, non d’amore, semmai del suo spegnimento, della sua impossibilità): un bambino che ancora non parla, articola versi che alludono a parole future che potrebbero incriminare, anche se non lo fanno.

E lei che, prima di abbandonarsi, dice: “non mi sento bene, non so che mi stia succedendo”. E poi, dopo minuti (forse) che sono lunghissimi, che potrebbero essere ore, un abbraccio, l’ultima cosa che lei sentirà per non morire sola, senza quel calore, senza quell’accoglimento- “tienimi, tienimi, per favore, tienimi”-; e quindi il silenzio, la stasi che è morte, dove non ci sono più parole perché le parole fanno esistere, e quando non ci sono niente esiste, sicuramente non lei che dovrà parlare nella forma del fantasma, una forma che è incantamento: quello del protagonista che le sopravvive e che non sapeva di dover agire ma poi si è ritrovato con quel corpo inerte tra le braccia. “Il fatto che qualcuno muoia mentre tu continui a rimanere vivo ti fa sentire come un criminale per un istante”.

Parte da qui Marias, superbo scrittore di questo dramma che avviluppa e non lascia tregua al lettore che gira le pagine come fossero cavalli galoppanti, gli zoccoli che segnano il passo e lo fanno sempre più vicino, ossessivo e stringente, come rintocco sonoro che, battendo il tempo, precipita nel gorgo dell’evento da cui non si può deviare, pur nelle giravolte del pensiero di Marias che più si allontana dal centro più si avvicina e ci arriva, al centro di quella morte assurda (e ridicola) che piega l’esistenza di chi rimane e deve capacitarsene (o fuggirla, a lui la scelta), riattraversandola o tentando di possederla entrando nelle esistenze di chi, quella donna, l’ha conosciuta, amata, frequentata davvero, e dunque sa (qualcosa in più, mai tutto, mai con certezza); mentre lui di lei non sa niente, scampoli di incontri, una conoscenza per lampi e sensazioni: quello era il loro primo appuntamento galante e adulterino. E quando la morte arriva, prima ancora di consumare l’amore o il sesso fugace che tra loro poteva accadere e invece non è mai accaduto, quando la parola fine arriva si vorrebbe sapere di più, ma non è possibile (e non lo era neanche prima, quando la morta era viva e si sarebbe potuta conoscere: un’illusione, nessuno si conosce interamente).

E dunque Victor, il protagonista che è sceneggiatore e “negro” (scrive cioè discorsi per gli altri: è ombra di mestiere), riesce a entrare in contatto con la famiglia di Marta Téllez, ad avvicinare il padre, la sorella, e il marito che per un giorno intero non ha saputo che la moglie era morta: Victor l’ha lasciata così, nel letto, mezza svestita, e se ne è andato perché la sua presenza non era spiegabile. Se ne è andato essendo però consapevole che il fatto “non succede del tutto finché non lo si dice e non lo si sa”. È un segreto che lui tiene in sospeso, come il tempo di chi non sapeva (che è anche un tempo fasullo e sfasato, ha un certo grado di irrealtà), finché deve raccontarlo, forse come pagamento di un debito contratto con la morta, più che altro: “Non ho intenzioni. Sta di fatto che, solamente, mi è successa una cosa orrenda e ridicola e mi sento come se mi ritrovassi preda di un incantamento, frequentato, spiato, rivisitato, abitato, la mia testa abitata e anche il mio corpo abitato e haunted da chi non ho conosciuto se non per la sua morte, e per alcuni baci che ci saremmo potuti anche risparmiare”.

Il silenzio, l’ombra e il nome

Se il silenzio è, per un certo tempo, la scelta del protagonista- che non dichiara alla famiglia di Marta il suo coinvolgimento con la quasi-amante-, la sua morte porta in primo piano una tematica fondamentale nella riflessione di Marias: quella della riconoscibilità attraverso il volto. Marta “era un residuo e per me tuttavia era la stessa di prima: non era cambiata e la riconoscevo”. La questione del volto è centrale, assieme a quella del nome: il volto che pian piano scompare e il nome che rimane e genera una sorta di cortocircuito, uno sfasamento tra passato e presente/futuro, strettamente connesso al tema dell’inconoscibilità dell’uomo agli altri e a se stesso: l’ombra che cala come una cataratta ad offuscare la vista e il pensiero, a renderlo traballante e dubbioso; l’ombra che Marias declina in due modi: attraverso Marta (“che disgrazia sapere qual è il tuo nome senza conoscere il tuo volto domani”), e attraverso Clelia, l’ex moglie che forse -e non se ne avrà mai la certezza-, dopo il suo abbandono, si prostituisce per strada (“che disgrazia sapere qual è il tuo nome senza conoscere il tuo volto oggi e tanto meno lo conoscerò domani”). Un cortocircuito che ci immette nei territori del sogno e dell’incubo attraverso i due cavalli (“un cavallo montato e una giumenta senza cavaliere”) che avanzano nella notte e che Marias usa come procedimento straniante, collegandone la vista con l’origine della parola nightmare, “la cui traduzione corretta è “sogno angoscioso” ma che letteralmente sembra voler dire “giumenta della notte o notturna” e non è così tuttavia [… perché] quando si riferisce alla giumenta viene dall’anglosassone mere, che significa proprio questo, e nell’incubo la provenienza è invece mara se non ricordo male, che significava “incubo”, lo spirito maligno o demonio o folletto che si sedeva o giaceva sul dormiente schiacciandogli il petto e provocandogli l’oppressione del sonno angoscioso”. Ciò che fanno gli spettri del Riccardo III shakespeariano di cui parleremo più avanti, come parleremo di un altro film, Falstaff, diretto e interpretato da Orson Welles, che ha a che fare con l’ulteriore torsione del concetto di riconoscibilità, del volto e del nome.

Il tempo e la sua nera schiena

Vi è un tempo per nascere e uno per morire; vi è il tempo della vita che è quello della continuità da cui riceviamo “la vita ma anche la sensazione della vita”: il tempo a cui si aggrappa Marta che chiede di non essere spostata di un millimetro, il panico che le fa credere che tutto debba continuare identico: “come se provasse tanto timore da preferire la paralisi assoluta di tutte le cose e rimanere almeno nello stato e nella posizione che le permettessero di continuare a vivere anziché osare una variazione, sia pure minima, che avrebbe potuto compromettere la sua momentanea stabilità del tutto precaria- la sua calma ormai temibile- e che le procurava il panico”; vi è un tempo fasullo, fuori di sesto, che è quello di chi non sa e s’immagina e sbaglia, e agisce di conseguenza: quello di Déan, il marito; vi è il tempo della dimenticanza, del lento svanire di tutte le cose che confluiscono nella nera schiena del tempo: “Tutto si dimentica o si estingue, ciò che si fa da soli e di cui non si prende nota e anche quasi tutto ciò che non è solitario ma in compagnia, quanto poco rimane di ogni individuo, di quanto poco vi è testimonianza, e di quel poco che rimane tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo, la memoria individuale non si trasmette e non interessa chi la riceve, il quale plasma e possiede la sua propria memoria”; vi è un tempo che corre (quando tutto è finito non ce n’è mai abbastanza), e uno che rallenta e si ferma e diventa intollerabile; e vi è poi un tempo potenziale dove tutto si intreccia simultaneamente: il tempo filmico, il tempo della scrittura, dove tutto, appunto, è possibile.

Shakespeare attraverso i film

Domani nella battaglia pensa a me -che è verso shakespeariano (tratto dal sogno di Riccardo III, in IV, 3)- ricorre a più riprese: è il procedimento consueto di Marias e costituisce il fil rouge della narrazione che, trama a parte, sostanzia il discorso del romanzo.

Ma qual è l’operazione compiuta con questo inserimento? Perché usare Riccardo III, perché quella scena, perché quei versi estrapolati da un contesto tanto differente? Ci arriveremo.

La risposta, la prima, sta nella predisposizione di Marias verso il cinema, che per lui “ha rappresentato un modello estetico importante quanto quello delle arti tradizionali”, dice Fabrizio Dall’Aglio nella bella prefazione a Dove tutto è accaduto (Passigli, 2008), raccolta di parte degli articoli pubblicati su settimanali o quotidiani; un approccio “‘caratterizzante’, nel senso di un’influenza sottile ma tenace che la tecnica cinematografica ha avuto sul suo stesso modo di narrare” (sempre Dall’Aglio) e che è rintracciabile nell’utilizzo del dettaglio e del punto di vista, entrambi a servizio della dimensione potenziale del tempo, e della verosimiglianza. Una predisposizione che la dice lunga sulla stoffa narrativa di Marias, che usa il tempo in maniera potenziale, abbiamo detto, o simultanea: come nel cinema dove gli avvenimenti possono accadere e accadono nello stesso istante, di modo che, attraverso il dettaglio, le storie si leghino, si intreccino, si intersechino: in questo caso è la visione di un film trasmesso nella notte a legare i vissuti di più personaggi.

Il film è dunque quel punto da cui si irradiano, simultaneamente e parallelamente, le diverse linee del romanzo. Che sembra un’eresia perché da un punto passano infinite rette che non si incontrano mai (se non in quel punto)… ma questa è geometria, non esperienza umana, sua percezione, visto che probabilmente quell’esperienza si coagula nel punto più che nella retta, e quel punto è la morte che permette la visione definitiva, l’unica stabile, cioè quella del fantasma (che è un po’ la posizione dello scrittore).

La notte in cui Marta Tellez morì alla televisione passava un film: il Falstaff di Orson Welles, che fu visto (o solo intravisto) da Victor e da Only The Lonely, nominato con diverse perifrasi, un re probabilmente, che il protagonista incontra per entrare in contatto con il padre di Marta. E qui ci congiungiamo al discorso sulla riconoscibilità così come viene sviluppato prima da Shakespeare (in Enrico IV, parte seconda) e poi da Welles.

Falstaff, dopo che il principe Hal (suo amico e compagno di baldoria) è diventato re Enrico V, viene bandito, allontanato dai suoi occhi: “Io non ti conosco, vecchio, non so chi sei né ti ho mai visto in vita mia, non venire a chiedermi nulla né ad addolcirmi con belle frasi, perché ormai non sono più quello che fui, e neanche tu lo sei. Ho voltato le spalle al vecchio me stesso, così che solo nel caso in cui ti giunga all’orecchio che torno ad essere ciò che sono stato avvicinati a me, e anche tu sarai quel che fosti”.

Falstaff diventa in qualche modo invisibile, senza identità o con un’identità solo potenziale: si può muovere come il fantasma di se stesso. E, nel romanzo, Only The Lonely, i cui discorsi vengono scritti da altri che lavorano per lui nell’ombra, si lancia in una tirata sul desiderio di essere più riconoscibile, in quei discorsi che pronuncia e che non sono suoi, anche se è una farsa, ma a quella farsa si dispongono tutti, anche lui stesso: la finzione funziona. E arriva a sostenere che siano le azioni e la personalità a determinare la percezione degli altri: il racconto che se ne fa- che per Marias non appartiene solo a chi lo narra ma a tutti, una volta che sia di dominio pubblico. Le storie circolano modificandosi continuamente, anche inavvertitamente; e condizionano.

Come condiziona la visione di un film, un altro, il secondo (ce n’è un terzo nel romanzo ma qui non ci interessa anche se il titolo suona così: Ricorda quella notte, di Mitchell Leisen): Riccardo III di Laurence Olivier. Un film che Victor aveva visto due anni prima, quando non sapeva se la prostituita con cui era andato fosse la sua ex moglie, e che per uno strano scherzo del destino gli torna in mente la notte della morte della sua quasi-amante. Il film funge da tessuto sonoro per quel legame, quel vincolo che infesta la testa di chi rimane, anche se non ha colpa del trapasso di chi è morto.

Un vincolo che non diminuisce perché la persona è morta, anzi, si fa più stretto: “qualunque frustrazione, qualunque fallimento, qualunque separazione o fine è ciò che più vincola, la piccola cicatrice per sempre come promemoria dell’abbandono o della mancanza”, dice Déan, il marito, visto che i morti continuano a installarsi nella testa dei vivi, “dibattendosi contro la loro dissoluzione e volendo incarnarsi nell’unica cosa che rimane loro per conservare il vigore e la frequentazione, la ripetizione o il riverbero infiniti di ciò che una volta fecero o di ciò che ebbe luogo un giorno”. Anche perché ormai i morti non trovano più spazio all’interno delle case, la morte non è più considerata un fatto dell’esistenza, sua parte integrante, così si tende ad emarginarla, dimenticarla, rimuoverla: “continuano a essere nomi ma non sono più volti, i nomi ai quali imputare viltà e abbandoni e orrori, questa è la tendenza, e non riposano neppure nel loro oblio”. E dunque tornano a riprendere il loro posto, quei morti, con voci che possono spaventare e vincoli che strozzano, finché non vengono acquietati e di loro, dopo un certo tempo che garantisce una certa dose di irrealtà, si fa racconto.

Forse non è un caso che uno dei film preferiti di Javier Marias, quello per cui ha un debole e a cui ha dedicato un lungo articolo, si intitoli Il fantasma e la signora Muir, di Mankiewicz.

“La figura letteraria del fantasma- e quella cinematografica pure-“, dice Marias in Voglio essere lento (Passigli, 2010), “è una figura che se continua ad aggirarsi nei paraggi, con o senza catene e lenzuola, è perché in qualche modo continua ancora a interessarsi a ciò che succede dopo che ormai non è più con le persone che ha lasciato. È qualcuno che c’è e non c’è, da un lato non partecipa, ma si sente coinvolto in quello che continua a capitare, conosce il finale o per lo meno il suo finale, vale a dire dal punto di vista del morto, del morto che tuttavia può raccontare”.

Il racconto, la parola scenica… Shakespeare lo sapeva bene!

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