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Timone d'Atene in Karen Blixen

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Una vecchia dal petto svuotato e il seno pendulo, la bocca spalancata a cui mancano all’appello alcuni denti, che si consuma nella sua imprecazione raggelata nel marmo, i serpenti che gli si intrecciano in testa e uno le morde l’orecchio, l’altro quel suo seno vizzo: è una delle sculture che si possono ammirare alla mostra Il trionfo del colore Da Tiepolo a Canaletto e Guardi, visitabile fino al 10 marzo a Vicenza.

In un angolo appartato, quasi di passaggio verso il salone dove sono esposte le grandi tele di Canaletto e Bellotto, e alcune di più piccole dimensioni di Francesco Guardi, è collocata questa testa di donna, scolpita da Angelo Marinali verso la fine del 1600, che si suppone possa rappresentare uno dei Sette Vizi Capitali: l’invidia. Donna e vecchia.

Tralasciando altri discorsi che condurrebbero troppo lontano, useremo quest’immagine come suggestione per penetrare in uno dei racconti di Karen Blixen, La cena a Elsinore contenuto nelle Sette storie gotiche, che vede protagoniste due sorelle, due zitelle ormai avanti negli anni che la scrittrice paragona a due Timoni d’Atene.

Nel dramma shakespeariano (ma prima di lui nei Dialoghi di Luciano di Samosata), Timone d’Atene è un fin troppo prodigo signore che sperpera i suoi averi pensando che dare equivalga a ricevere, e dunque a essere creditore; un abbaglio visto che, caduto in miseria, quel credito non gli viene riconosciuto da nessuno dei sedicenti amici-adulatori. La strada che Timone prende, allora, è quella dell’allontanamento dalla città, dell’eremitaggio, della misantropia carica di maledizioni. Apemanto lo rimprovera con una battuta fulminante: “Come uomo tu non hai mai conosciuto il giusto mezzo ma soltanto eccessi in un verso o nell’altro”. In medio stat virtus, recita il detto latino.

Così è per le due vecchie sorelle protagoniste de La cena a Elsinore: “Si sarebbe detto che fossero incapaci di mantenere il giusto limite tra i due estremi”.

E difatti, poche righe sopra, Blixen le paragona, fin da giovinette, a due Timoni d’Atene perché, se da una parte erano “il cuore e l’anima della piccola città”- tanto splendevano e inducevano all’ammirazione-, dall’altra, una volta sole nelle loro stanze, “singhiozzavano amaramente e senza una ragione al mondo. Discorrevano della vita con la cupa amarezza di due Timoni di Atene”.

Il denaro che, in Shakespeare e nella sua critica feroce supportata dalla penna satirica di Thomas Middleton, “si emancipa in essere vivente” – dice Franco Marenco nella nota introduttiva al dramma in questione, contenuta nell’edizione Bompiani di Tutte le opere, da lui curata con mano esperta e sicura-, quel denaro specchio di un equilibrio mai raggiunto dove “il paradosso e l’ossimoro restano le figure retoriche dominanti”, misura di tutto, di ogni rapporto umano come di ogni miseria capace di giustificare abiezione e menzogna, adulazione e tornaconto; in Blixen non è menzionato, o meglio, sta sullo sfondo, essendo la vicenda ambientata in Danimarca sullo scorcio delle guerre napoleoniche e della cosiddetta “guerra delle cannoniere” che oppose la stessa e il Regno Unito per il controllo delle rotte commerciali. La Danimarca, i cui giovani si erano impegnati ad armare agili battelli per proseguire efficacemente le ostilità, proibì infine la guerra corsara e “il paese intero si afflisse sui suoi uccelli da preda”, dice Blixen. È una privazione, quella sofferta dagli spiriti belli danesi, una sottrazione che si esplicita nell’attitudine delle sorelle De Coninck di elargire e sparire, sottraendosi anche alla loro più autentica natura.

Erano ragazze splendide, un tempo, le due giovani sorelle De Coninck, eppure languivano al sole di quella loro sterile vanità che le condannava a essere soltanto immagine allo specchio, mentre la donna reale rimaneva nell’ombra, spettatrice della vita e dell’amore, con un cuore che s’induriva sempre più, incapace di liberarsi dalla trappola che dolcemente la catturava. “Forse per loro, affinché una cosa le affascinasse davvero, bisognava che in realtà non esistesse”.

E così gioventù, floridezza e bellezza le abbandonano, trasformandole in zitelle scheletrite che a nulla pensano se non a fare del passato perduto un culto, bello perché impossibile da recuperare (è il procedimento della Blixen che scrive storie lontane dal suo presente, ambientate tutte circa un secolo prima, per essere “perfettamente libera” da ogni forma di realismo e, allo stesso tempo, imbastire la sua riflessione sulla vita in maniera serena).

Impossibilitate a concedersi all’amore nella sua concretezza, perché amore forse incestuoso per il fratello Morten, sfioriscono placidamente per la “maledizione che gravava su quella razza e legava assieme le sorelle e il fratello rendendo loro impossibile qualsiasi sincero rapporto con altre creature umane”. Morten, alla vigilia della nozze con una ragazza insipida, era sparito senza lasciare traccia di sé, se non in vaghi racconti che circolavano di bocca in bocca, per essere padrone di viversi quel suo folle desiderio per La belle Eliza, la sua goletta da pirata che portava il nome della più giovane delle sorelle, “il cigno di Elsinore”.

Impossibilitata anche la Blixen ad avere accanto un compagno stabile: prima rifiutata da Hans Blixen, poi abbandonata dal di lui fratello minore, Bror, che aveva sposato come ripiego e che le lasciò in dono, come frutto di uno dei suoi tanti tradimenti, la sifilide; incapace di tenersi Denys Finch Hatton che preferiva alla solidità di una relazione la sua libertà (ce lo racconta ne La mia Africa); e infine defraudata dell’opportunità di avere rapporti fisici a causa della malattia e del possibile contagio. Ma qui non si capisce quanto quella sottrazione fosse ormai divenuta scelta consapevole, e non imposizione, per vivere all’altezza dell’ideale di donna disincarnata e dunque di scrittrice, pura voce, visto che il corpo si consumava rendendola sempre più eterea: uno scheletro o un fantasma.

E un fantasma arriva anche a ravvivare la noiosa routine delle sorelle. È quello di Morten che approfittando del Sund ghiacciato (perché, racconta lui, è l’unico momento in cui si possa risalire dall’inferno) va a fare loro visita a Elsinore.

Un altro fantasma shakespeariano si aggirava sugli spalti di quel castello (che è il castello di Kronborg): quello del padre di Amleto, che chiedeva vendetta.

Questo fantasma blixeniano invece non chiede nulla, ma apre l’abisso su cui pencolano le due zitelle: quello del non vissuto, della rinuncia amara che fa dire a Fanny, la più vecchia, “All’inferno! Portami con te!”, mentre batte la mezzanotte, il fratello dilegua, e lei ammutolisce nel rendersi conto di quel sogno vagheggiato da Eliza e Morten: il sogno di entrambi, La belle Eliza.

Fanny invece rimane deserta spettatrice del suo nulla, un nulla che ha per compagna l’invidia, e ci ricorda l’immagine scolpita da Angelo Marinali: il corpo rinsecchito, la testa come un teschio su cui spiccano i vividi occhi neri, e l’imprecazione appena trattenuta.

L’amore è dissolutorio ma la sua mancanza sottrae corpo, mangia i seni, e punge con gli spilli dell’invidia. Fanny non ne fa racconto, ma la Blixen sì.

E se la scrittrice cita Shakespeare, di cui era attenta conoscitrice- stando al ricordo di Ole Wivel che la vide a Kronborg verso la fine degli anni ’30, alla rappresentazione dell’Amleto impersonato da John Gielgud, recitare a memoria le battute “con la precisione di un suggeritore”-, se lo cita un motivo ci sarà. Le due sorelle sono come due Timoni d’Atene, dice; ma Timone è solo uno: è Fanny per la quale non c’è redenzione né sogno, nessuna Belle Eliza; Fanny è l’altra, la scomoda, l’esclusa, l’alterego di una scrittrice che tramite il suo personaggio parla di sé e della disillusione, ma anche di ciò che attraverso la scrittura fece della sua vita.

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