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La conca buia. Intervista a Claudio Morandini

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Per Le Tre Domande del Libraio questa settimana su Satisfiction incontriamo lo scrittore aostano Claudio Morandini che da poche settimane ha pubblicato, per Nottetempo, “La Conca Buia”. Un romanzo originale che arriva sui nostri scaffali dopo il successo di titoli come “Neve, cane, piede”, “Le maschere di Pocacosa “, “Gli oscillanti” e “Catalogo dei silenzi e delle attese “.

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Claudio, un ritorno alla montagna, con le sue contraddizioni, all’interno di una narrazione amara e tragicomica. Vogliamo partire raccontando come nasce l’idea di questo libro e la scelta di pubblicarlo per la casa editrice Nottetempo ?

Il romanzo La conca buia è nato da un’idea molto semplice e, se vogliamo, gratuita: costringiamo due figure profondamente incompatibili a convivere per un certo periodo di tempo e vediamo che cosa succede. Queste figure conflittuali si sono concretizzate a poco a poco (nel corso di qualche anno, diciamo) nel sindaco in cerca di riconferma Franco Gavaglià, afflitto dall’obesità e da diversi acciacchi, e nel padre di lui, un vecchio alpigiano che in passato è stato violento e tirannico con tutti, bestie e persone, moglie e figlio compresi. L’occasione invece è il mese di campagna elettorale nel corso della quale Gavaglià deve girare per paesi e frazioni presentando il padre non come è stato nella realtà, ma come una figura positiva, eroica. La montagna, da cui per la verità nei miei libri non mi sono mai allontanato, mi è sembrata subito lo sfondo ideale per una storia di contrasti e conflitti: se intesa come ambiente naturale garantisce ombre fitte, vertigini, fatica, sudore, disagio, smarrimento, deriva, una gamma piuttosto vasta di odori e di altre sensazioni, un gioco continuo di linee prospettiche ingannevoli, come una specie di anamorfosi. Se invece intendiamo la montagna come spazio colonizzato, trasformato e devastato dall’uomo, ecco che si aprono scenari molto inquietanti e attuali – e volevo che anche di questo rimanesse qualche traccia nel romanzo, non perché io ritenga che un romanzo debba per forza inseguire le tematiche più attuali (per carità!), ma perché si tratta di territori vasti e in buona parte ancora inesplorati dalla letteratura.
A questo punto sta anche l’incontro con Nottetempo. Non ho scelto questa casa editrice, sono stato scelto, piuttosto, il che naturalmente mi rende felice: sono convinto che La conca buia riveli un’attenzione ancora più spiccata che i miei precedenti romanzi per il complesso rapporto tra comunità umane e ambiente e per le pesanti responsabilità dell’uomo nell’alterazione dell’ambiente naturale, e questa attenzione secondo me si colloca perfettamente nel catalogo di una casa editrice sensibile e originale come Nottetempo.

Siamo a Covignasca, un esteso e immaginario comune alpino comprendente molti borghi e frazioni, nelle ultime settimane di campagna elettorale dove il protagonista, Franco Gavaglià, si accinge ad essere riconfermato sindaco per un secondo mandato. Entriamo nel vivo del romanzo dettagliando le tre figure, particolarmente riuscite, intorno alle quali si sviluppa tutta la storia: Franco, la figlia Leda e l’anziano e cattivissimo patriarca?

Le tre generazioni dei Gavaglià corrispondono a tre modi diversi di vivere, di allacciare relazioni, di rapportarsi con i luoghi.
Gavaglià padre, il vecchio patriarca, ha esercitato una tirannia assoluta, feroce e assurda sul suo piccolo mondo, la malga, al riparo dagli sguardi altrui. Parlava poco, pochissimo: per comunicare ordini gli bastavano i gesti, le botte, quando andava bene un’occhiataccia. È senza nome perché non ne ha bisogno: il cognome è più che sufficiente. Appartiene a un mondo pre-storico, barbarico, fondamentalmente immobile: nella sua visione, Dio è dalla sua parte, perché gli ha concesso il privilegio di esercitare la forza sui deboli e di sfruttare a suo piacimento le risorse che la natura gli mette a disposizione. Agli occhi del figlio può essere ancora pericoloso, anche se adesso è vecchio, sradicato e prosciugato: meglio allora che sia sedato, prima dei comizi.
Franco Gavaglià, il sindaco, ha subito da bambino la violenza del padre, ha visto di cosa può essere capace. Ha conquistato, rispondendo alle botte con le botte, una sua autonomia, poi ha scoperto, ai tempi dell’università, una propria vocazione all’eloquenza, che ha saputo affinare e ora sfrutta nella sua funzione di sindaco. È bravo con le parole, Franco Gavaglià – fin troppo bravo, verrebbe da dire, nel leggere la sua testimonianza chissà fino a che punto sincera. Di sicuro ha scoperto che con le parole si può governare meglio che con la violenza, che gli ripugna – e che la padronanza delle parole e della retorica garantisce una superiorità che è anche un modo più sottile di coercizione. Pare incapace di istituire rapporti profondi con gli altri: le sue relazioni sono tutte improntate a un certo opportunismo, anche quella con la figlia Leda, a cui pure vuol bene. Non è tuttavia un superficiale, una caricatura unidimensionale: è anzi complesso, anche contraddittorio. Come il padre, sembra legato irrimediabilmente all’ambiente in cui è nato – ha esteso solo di un po’, a tutto un comune, il territorio di pertinenza.
Leda, dei tre, sembra l’unica in grado di interessarsi agli altri senza volere nulla in cambio. Sa stare accanto alle persone con naturalezza, e sa anche distaccarsene, per perseguire certi suoi obiettivi, e andare lontano, all’estero. Nel racconto del padre, che è pur sempre l’io narrante, questi obiettivi risultano fumosi, vaghi, e l’atteggiamento della figlia suona un po’ irresponsabile, incostante, superficiale. D’altra parte Leda ha il sospetto che il padre, nel raccontare di sé, si conceda troppe iperboli, troppa enfasi, troppo compiacimento vittimistico. Franco e la figlia si vogliono bene, indubbiamente, e provano ad aiutarsi, ma allo stesso tempo si studiano, si mettono alla prova, non perdono occasione per mettersi reciprocamente in discussione. Leda è insomma il “tu” ideale con cui l’”io” del padre può misurarsi costantemente, tra confidenze, recriminazioni, mezze confessioni, omissioni, reticenze e abbandoni lirici un po’ sospetti.

Il cinismo e la disonestà della politica, le ipocrisie delle relazioni e i temi ambientali e poi, innanzitutto, una sapiente costruzione intorno alla violenza della natura e alla violenza umana con le rappresentazioni del Male in tutte le sue diverse forme. In assoluto il libro più bello e intenso che io abbia letto in tutto questo 2023. Al netto di tutte le tematiche  affrontate, ci vogliamo soffermare sulla scelta formale del libro e questa lingua precisa e misurata e, poi, la necessità di questa ironia spietata che irrompe potente soprattutto nelle ultime pagine?

L’ironia è la mia, fa parte del mio scrivere, ma in questo caso, visto che il romanzo è in prima persona, e che questa prima persona è Franco Gavaglià, è anche la sua. Ovviamente Gavaglià può essere ironico soltanto in privato: nel descrivere il trantran della politica di provincia e l’inquietante e traballante castello di carte e di menzogne costruito attorno alla figura del vecchio padre può concedersi ironia e sarcasmi soltanto con la figlia. Non può permettersi di essere palesemente ironico nell’esercizio della sue funzioni di uomo pubblico, soprattutto in campagna elettorale, in cui le sottigliezze vengono bandite a vantaggio di una comunicazione rozza e puerile. L’ironia, per lui, è anche una forma di salvezza: modulato attraverso l’ironia, anche il dramma più insostenibile, il ricordo più doloroso possono diventare sopportabili. Questa ironia, o per meglio dire umorismo, consiste in una visione distaccata e laterale rispetto all’oggetto della nostra attenzione: se guardiamo le cose e le persone da una certa distanza e di sguincio ne scopriamo la limitatezza, la piccolezza, la sbadataggine, l’inettitudine. Di nuovo: percepiamo che Franco Gavaglià è molto più complesso e interessante della patetica sagomina caricaturale che egli stesso finisce per dare di sé: sentiamo che forse, in altri contesti, in altre condizioni, avrebbe potuto realizzarsi meglio, darsi obiettivi più ambiziosi e profondi. E lo sentiamo proprio perché Gavaglià è capace di staccarsi da sé e di osservarsi con il distacco critico dell’umorismo. Purtroppo gli è toccato in sorte di abitare in un piccolo mondo angusto e brulicante di pompose mezze calzette di scarso valore – il senso della provincia, non solo di quella di montagna, sta tutto qui, in fondo –, e da lì, per pigrizia, per mancanza di ambizione, per quieto vivere, non si è colpevolmente staccato.

Buona Lettura del romanzo “La Conca Buia “di Claudio Morandini

Antonello Saiz

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