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Tsukamoto Shin’ya anteprima. Un serpente di giugno

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Marsilio editore traduce per la prima volta in italiano e porta in libreria, con la traduzione di Francesco Vitucci, il romanzo Un serpente di giugno di Tsukamoto Shin’ya, tratto dell’omonimo film del 2002 scritto dallo stesso regista giapponese di culto.

Un thriller in cui non sono previste “vie di mezzo”: brutalità e compassione, pulsioni discordanti che riscrivono il concetto di morale. La ferocia originale delle immagini che scorrono a video sono trasposte anche sulle pagine. Il risultato è un romanzo inquietante a tinte plumbee, in cui il dramma psicologico esplode in un canto di erotismo puramente “mentale”, mentre un serpente invisibile ridesta i sensi nel corpo della protagonista Rinko, timida consulente di una hot line e moglie inappagata.

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Il cuscino vibra puntuale alle sette. Mi guardo allo specchio e constato che ho una faccia da schifo. Collirio. Le indicazioni dicono una o due gocce per occhio, ma a me non basterebbe mezza boccetta. Faccio colazione con cinque biscotti digestive e una tazza di tè. Devo andare al supermercato, non posso più rinviare. Mi faccio la doccia e pulisco gli apparecchi, poi mi vesto. Prendo la borsa ed esco sbattendo la porta. Ieri ho cercato l’indirizzo della sorella di Freddy su Google. Non conosco tutte le vie, non come quelli che abitano qui da sempre. Passo davanti ad alcune case bifamiliari di legno con i giardinetti ben curati. Numero 43.

Una donna socchiude la porta e capisco che è lei prima ancora che apra la bocca. Si è truccata abbastanza bene ma niente può nascondere la sua espressione o lo sforzo che le costa il suo sorriso. Sembra che l’abbiano presa a pugni nello stomaco cento volte.

«Tuva.» «Esther Malmström.» Entriamo. Lei è senza scarpe e io mi tolgo gli stivali.

La casa è silenziosa e ci sono troppi fiori in giro. Esther deve aver usato tutti i vasi che aveva. Alcuni bouquet sono identici perché c’è un solo fiorista a Gavrik. I mazzi di gigli spuntano senza troppe cerimonie da alcuni secchi e le rose bianche con il gambo lungo da una pentola profonda, vicino alla scala.

«Andiamo a sederci» dice Esther. «Grazie di essere venuta.» Mi fa strada fino al soggiorno. Divano Ikea, grande televisore appeso alla parete, stufa a legna e carta da parati tinta unita.

«Mi dispiace molto per quello che è successo» dico.

«Cercherò di essere breve.» «Non preoccuparti» dice lei. «Ci tengo a parlare con te. Voglio che trovino il bastardo che lo ha ammazzato. In una comunità così piccola possiamo unire le forze e trovare chi ha fatto questo a Freddy.» Il suo sorriso si incrina. «Sono pronta. Voglio aiutarti.»

«Lo apprezzo, Esther. Tuo fratello ti ha mai confidato di essere spaventato, di essere stato minacciato?» «Me l’hanno già chiesto i poliziotti» risponde lei, accarezzando il bracciolo del divano con il palmo della mano. «Non è mai successo. Era un bravo ragazzo e un bravo insegnante, tutti gli volevano bene. Per me era un santo, sul serio. Sono sempre stata io quella cattiva dei due.»

La fisso, stupita.

«Quando eravamo bambini, intendo. Comunque Freddy era una bella persona.»

«Era mai stato aggredito? Era rimasto coinvolto in qualche rissa?»

«No.» «Molti pensano che questo omicidio sia collegato a quelli degli anni Novanta. Lo pensi anche tu?» «E me lo chiedi? Certamente sono collegati. O credi davvero che ci siano due pazzi lì fuori, che si divertono a cavare gli occhi alla gente? I poliziotti non sono riusciti a scovarlo, e lui è tornato.» Guarda il soffitto. «È la stessa persona, ovviamente» conclude abbassando la voce. Rimango in silenzio per qualche istante.

«Mi dispiace. Non ne ero al corrente.» «Ho dovuto identificarlo. Credevo di trovarlo sotto

un lenzuolo, credevo di potergli dire addio. Ma era solo una foto.» Tira su con il naso. «E gli occhi erano coperti. Penso che non serva aggiungere altro.»

«Mi dispiace.» «Anche a me.» Rimango di nuovo in silenzio.

«Freddy aveva qualche amico che consideravi pericoloso, che non ti piaceva?»

Esther smette di accarezzare il bracciolo e rimane a guardarlo. Poi guarda me.

«Be’» dice, tornando a fissare il bracciolo come se si aspettasse qualcosa. «Forse.»

Sento lo stomaco che borbotta e mi muovo cercando di coprire il rumore, che continua. È ridicolo e quasi osceno in un momento come questo. Esther si stropiccia gli occhi e coprendo quasi

interamente il viso con le mani continua a parlare. Io però non distinguo le sue parole. Le biascica, e non posso leggere il labiale. «Mi dispiace. Sono sorda, non ho capito quello che hai appena detto.»

«Sei sorda?» ripete, alzando le sopracciglia. «Ma mi senti, no?» Indico le orecchie.

«Sento abbastanza con gli apparecchi, e in caso di necessità mi aiuto leggendo il labiale.»

«Parli molto bene per essere sorda.» Lo dice con gentilezza, ma non posso evitare di irrigidirmi. È come dire a un uomo con una protesi alla gamba che se la cava bene per essere uno storpio. Non

è propriamente un complimento. Non lo è.

«Torniamo agli amici di Freddy. C’era qualcuno che non ti piaceva o di cui non ti fidavi?»

«Conosci il linguaggio dei gesti?» Scuoto la testa. «Com’è?»

Tiro su con il naso. «Com’è essere sorda?» Esther annuisce e mi si avvicina sul divano.

«È normale, solo che non ci senti. Nient’altro. Sono diventata sorda quando ero molto piccola.»

«Cos’è accaduto?» «Meningite.» Ho pochi ricordi di quando ancora ci sentivo, di quei suoni: una festa di compleanno, il furgoncino dei gelati, la risata di papà. «Non voglio essere scortese, ma vorrei scrivere un articolo veramente interessante, che possa attirare l’attenzione di chi ha

informazioni su Freddy. Mi parli dei suoi amici, per favore?»

Esther si appoggia alla spalliera e infila la mano fra due cuscini.

«Io e Freddy siamo sempre stati molto uniti, ci siamo sempre raccontati tutto. E sì, due suoi amici non mi piacevano. Uno è Hannes, con cui andava a caccia.»

«Hannes Carlsson?» «Sì, la foresta di Utgard è quasi tutta sua. Lui e la moglie se la passano bene» dice, sempre con la stessa espressione. «Sono decisamente benestanti. E lui è un prepotente, faceva il bullo con il marito di una mia amica quando lavorava alla cartiera. So che è il capo della squadra dei cacciatori e penso che li bullizzi tutti.» «Pensi che sia responsabile della morte di Freddy?» Scrolla le spalle. «Non lo so. Ho detto alla polizia di interrogarlo, di controllare le sue armi, ma sai com’è…

Hannes conosce tutti qui. È un pesce grosso, e tutti ci tengono a essere suoi amici. Io ho informato la polizia, però…»

«Chi è l’altra persona?» «So solo che si fa chiamare Candy e lavora allo strip club sulla E16, quel locale in mezzo al nulla un po’ più a sud rispetto alla cartiera. Quel posto era un bordello

una volta, lo sapevi?» «No.» «Bene, adesso lo sai. E ti dirò anche che secondo me lo è ancora, non ufficialmente. Sai come sono le spogliarelliste.»

A dire il vero non lo so. «Freddy e Candy erano… amici?»

«Non erano amici, no. Lui la pagava. Non erano amici. Mi aveva detto che non poteva permettersela ma non riusciva a smettere. Immagino che si fosse innamorato.

Io gli avevo detto che era da stupidi innamorarsi di una maledetta spogliarellista, ma è andata così. Passava due o tre notti alla settimana in quel locale, a bere Diet Coke e a guardarla ballare.» Si asciuga una lacrima, o forse le è solo entrato un ciglio nell’occhio. «Non una gran vita.»

Mi mordo le labbra e mi guardo attorno. Fotografie in bianco e nero in cornici di legno, una libreria mezza piena di giochi da tavolo e puzzle. «Non dev’essere facile vivere in un posto come questo

per un divorziato di cinquant’anni» dico. Lei annuisce. «Suo figlio è di sopra. Non ci crederai ma sta giocando al computer. Non vuole scendere. Non vuole parlare.»

«Quanti anni ha?» «Quattordici ma è come se ne avesse ventuno. Non permette a nessuno di entrare, non parla con nessuno. Devo lasciargli il vassoio con il cibo davanti alla porta come se fosse un monaco o un prigioniero. Sua madre è in Florida, arriverà per le vacanze di Natale e spero

che gli faccia bene incontrarla, anche se non parla molto nemmeno con lei.» Alza lo sguardo verso il soffitto. «Non posso proprio biasimarlo per questo» conclude abbassando la voce.

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