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Marco Missiroli. Avere tutto

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A Missiroli piace spiazzare il lettore. Ogni suo libro si può considerare come un mondo a sé, una tematica cardine, pochi personaggi, una prosa che fa scuola. Se con il primo Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli, 2015) scoprivamo il mondo sessuale attraverso gli occhi di un dodicenne e con Fedeltà, entravamo a piè pari nella crisi di una coppia, con Avere tutto Missiroli decide di mostrarci il complesso rapporto che lega un padre e un figlio all’interno di una Rimini silenziosa, nel giugno ancora dormiente, lontana, solo per poco, dal consueto delirio estivo.

Minimale fin dalla (perfetta) copertina, il terzo romanzo di Missiroli procede per sottrazione, scarnifica la prosa, danzando attraverso dialoghi ruvidi e realistici che non si fanno scrupolo di chiamare in causa anche il dialetto romagnolo nei loro scambi più serrati.

Le voci sono quelle di Sandro e Nando, un figlio scappato dalla Riviera per rincorrere il successo nella grande città e un padre che, invece, dalla sua Rimini non si è mai spostato ma ha continuato ballare, senza mai fermarsi, prima con il corpo, poi con la testa.

«Mettevano i dischi appena svegli e montavano le forze fino al crepuscolo, nelle stanze di casa, i talloni e le suole a sbacchettare, in garage, i polpacci tesi e le braccia a fiocco, finché la sera non entravano nelle piste e tiravano mattina. E li vedevi rientrare scombinati, le pieghe nei vestiti e i colletti storti. Sul resto scontrosi, inafferrabili, distratti. Nando e Caterina e il loro fuori stagione. Scaramàz, come lo chiamava lei.»

Ci consegna due teste calde di egual misura, il buon Missiroli e si fatica a non empatizzare fin dai primi scambi con quel testardo di Nando, E’ Pasadèl, il passatello, snodato e leggero come quel vermicello di pane e formaggio, nomignolo guadagnatosi a metà degli anni novanta per aver inventato il salto Scirea, una movenza unica, l’unica in grado di portarlo lassú, nel limbo dei vincitori, “l’uomo senza peso e il suo azzardo”. E poi Sandro, un’altra bella testa dura che l’”ha sémpra fat da par sé”, scappato dalla provincia per affermarsi nella metropoli fighetta, Sandrin, con la sua curiosità innata che gli ha permesso di fare tutti i lavori del mondo prima di affermarsi come direttore creativo in un’agenzia pubblicitaria, con qualche trovata giusta per guadagnarsi un pagamento a centoventi giorni, a centottanta, ma non abbastanza geniale per fargli compiere il salto vero, altro che Scirea. Sandro, il precario che vive per giocare. Sandro, a cui piace vincere, perché ha “il dono”, perché gli piacciono le cose vere, perché, perché… una sfilza di motivazioni con cui ci si potrebbe costruire una casa, o distruggere una relazione.

«La prima volta ci finisci dentro per caso. Un invito, un’occasione fortuita, trovarsi in mezzo. Trovarsi in mezzo a un tavolo e saperci fare. La sensazione: aver imparato una cosa senza che nessuno te l’abbia insegnata.»

Necessario è quindi l’intervento del divino, o della semplice coincidenza: il settantaduesimo compleanno del padre, forse l’ultimo. Il bisogno di tornare a casa per stare assieme, un’ultima volta. Riprendere le routine dimenticate, la casa che trasuda dei ricordi marittimi, quella Rimini “dura con i timidi” che si riprende i colori, alternando i ricordi al presente.

«Camminiamo sulla battigia dal bagno numero 5 al bagno numero 33, i riminesi e l’impazienza della bella estate, le canottiere e i costumi interi, qualcuno è già a mollo anche se il mare è mosso e ha trattenuto il temporale. Laggiú il corno di Gabicce è limpido e noi insistiamo a camminare con l’andatura romagnola, mezzi svelti e mezzi pigri, la testa per aria e le ginocchia forti.»

Il lungomare, i locali svuotati, il piazzale del Grand Hotel, il sale che ti entra nelle ossa e quel mare che ha lasciato l’inverno ma che ancora conserva un ricordo del cielo capriccioso tanto caro alla Verasani, “a giugno Rimini è ancora di Rimini: tutti conoscenti e la sabbia sgombra dalla cagnara.” Una città che diventa personaggio, che osserva e ascolta un dialogo sincero e spontaneo tra due persone che per anni hanno inseguito la vittoria e con cui ora invece ci scherzano, di bramosia appassita, come si potrebbe scherzare dell’imprevista goffaggine di una foto ripescata da un cassetto impolverato. Di nuovo il gioco, la voglia matta.

Dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno?”

Sandro e Nando cacciano sogni, ci trascorrono i pomeriggi a scambiarsi ipotesi su quella domanda nata quasi per caso. Buttano tutto sul tavolo: carte e delusioni, tutte mescolate assieme, mentre il corpo del Pasadèl si spegne piano, tra una carezza del figlio, un tracollo e una fuga notturna sulla Renault 5: cos’è rimasto da confessare? Cos’altro si può nascondere a un uomo che ha rincorso tutto?

«Accendo il computer, sulla scrivania ci sono la lampada dal collo lungo, le vecchie bollette, la confezione della stilografica regalo di laurea. La stappo e scrivo in agenda di richiamare la banca per il fido, mi metto a lavorare.

Quaranta minuti dopo la Renault 5 si accende e va via.»

Non conosco il passato dell’autore, non mi importa quanto ci sia di biografico e quanto sia frutto d’invenzione, ciò che raccolgo da queste pagine è una storia che trasuda di un verismo fatto da una pasta rara. Missiroli, è bravo, questo già lo si sapeva, ma la scena imbastita a questo giro si porta addosso l’impellenza di una gravitas che va oltre le parole. Ciò che in apparenza può sembrare ridotto, scanzonato, asciutto, in realtà è il frutto di un lavoro di cesellatura della prosa encomiabile.

Levigare la forma senza scalfirne l’anima è compito riservato ai veri artigiani del testo e mentre leggevo mi tornava alla mente l’epilogo di Vitaliano Trevisan, in Primo amore, la pellicola di Garrone, quando ripete alla sua amata e noi stessi quanto sia necessario raschiare, togliere tutto, ogni impurità, ogni cosa superflua e poi raccogliere le polveri e fonderle di nuovo, per raggiungere l’essenza pura dell’oro. Missiroli c’è riuscito e in questa riconciliazione che a volte è uno scontro, altre volte invece ha il sapore di un’assoluzione trascinata e rimandata negli anni, emergono limpide le vulnerabilità di questi personaggi (Non solo Sandro e Nando ma anche Giulia e la madre Caterina) che restano impressi nella testa e nel cuore, con i loro lividi, i loro fallimenti e le loro rese. Verrebbe da sedersi tutti assieme, a un tavolo qualsiasi del bar America o del bar Zeta, alzare un cicchetto di vino rosso al cielo e brindare dei propri passi falsi, finalmente liberi.

La calma bella.

Stefano Bonazzi

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Avere tutto

Marco Missiroli

Einaudi

18,00 euro — 168 pagine

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