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Massimiliano Santarossa inedito. Il cielo sopra Milano

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E senza chieder di meglio, venne un Natale differente.

«Stai sempre a camminare da solo come un Cristo, con quella faccia lì da via Crucis, te», mi disse il ragazzo che campava al dormitorio, nel buco davanti al mio.

«C’è mai altro da fare», risposi assonnato, fissando il parquet grigio e macchiato del corridoio.

«Vieni a mangiarti un bel pezzo di bestia, è pur sempre Natale», propose il ragazzo, sì e no vent’anni, come me, facendo segno di seguirlo.

Gli andai dietro, non avevo altra scelta in tasca, né in testa. Usciti dal dormitorio, Tomaso, così disse di chiamarsi, s’infilò nel groviglio di strade, incroci, piazze, una avanti l’altra: conosceva Milano quanto io governavo i pochi metri del mio paese in Friuli, c’aveva la mappa dietro gl’occhi; c’è chi diventa un pezzo della città che lo ospita, la più grande fortuna per un migrante.

Ci mettemmo un’ora buona a uscire dai cerchi del centro. E con le schiene dei grattacieli ancora di dietro, a qualche chilometro, davanti già s’aprivano due ammassi di catapecchie, il primo di tuguri di legno dai tetti di teli di plastica, svolazzanti a ogni folata di vento, mille velieri alla deriva, e dappertutto gli avanzi d’ogni genere di distruzione: auto smembrate, mobili marci sotto la neve, catafalchi di ferro ruggine, lavandini, water, radio, tubi storti… e a seguire altre baracche identiche e se possibile più malmesse, a dar corpo alla distesa di povertà.

Tomaso m’aveva condotto all’ultimo confine del mondo, dentro una baraccopoli ferma lì dal dopoguerra. Noi poveri d’Italia, così io del Friuli, avevamo Milano per meta, ancora in quegli anni Sessanta, assieme ai terroni del sud e agli slavi dell’est; tra quelle carcasse trovavamo il nostro destino, lì, come in ogni altra metropoli. È mai cambiato, per noi migranti, l’avvenire.

Come arrivammo, già nel primo spiazzo tra cinque baracche, una madre con un manipolo di figli suoi e altrui attaccò a organizzare un cerchio di quella minima umanità: stracciona, sporca, ridente, coi volti scavati nel legno, la matrona come i suoi piccoli; lei al centro e tutti attorno, in un antico rito pagano, tra chiazze di neve e vento di ghiaccio.

Accese un fuoco e mise sulle alte fiamme un pentolone scurito dal fumo e dal tempo; ipnotizzati i mocciosi stavano a fissare le vampe rosse, seduti sulla terra fangosa, composti e silenziosi.

«Forza, fuori i cucchiai, che è calda», ordinò infine la donna, scura di carnagione, bassa e priva d’età, grossa e di stoffa nera vestita. Come soldati della fame, i piccoli presero dalle tasche chi un pezzetto di legno piatto, chi un vero cucchiaio di ferro, chi dei tocchi di latta schiacciata, e si tuffarono mani e bocche, ansiose, d’affamati, dai bordi del pentolone fin dentro la zuppa.

«Piano, che è bollente, non voglio zuffe né schiamazzi», urlò la donna, divertita nel guardare il suo branco di cuccioli d’uomo intenti a raschiare il fondo del liquame scuro, fagioli, patate e qualche raro pugno di riso.

Tutt’a un tratto, venni attirato da un canto, un coro di voci antiche. Un altro gruppo di bambini camminavano tra i capanni, sopra le pozze di neve sciolta, tenendosi per mano, e la gente attaccò a uscire dalle baracche per ascoltarli, erano così insieme che non si poteva immaginare. Avevano i bambini e gli adulti occhi colmi di stupore.

«Cosa fanno?», chiesi a una donna.

«Pregano», rispose dileguandosi nella fila.

Cantare e pregare, tra la povertà del mondo e del Natale, era lo stesso gesto: un istinto.

Tre fratelli, amici di Tomaso, uscirono da una porta di ferro nero, scrostata; tanto s’apriva la porta, tanto barcollavano le mura della baracca; ci campavano due famiglie, dodici persone pressate tra loro, notte e giorno. Tenevano in mano due robusti conigli selvatici.

«Il fuoco lo facciamo con quelle tavole rotte», disse il più giovane, un biondino dal muso infangato e marpione.

«Niente di più facile che preparare un coniglio, corrono a frotte qui intorno», disse Tomaso afferrando i corpi delle due bestiole, teste penzolanti a lato.

Stirò la pelle del dorso, la squarciò con la punta del coltello, infilò le dita e scuoiò le bestie tirando via il pelo come una calza, dal corpo verso il collo e poi fino alle zampe, infine col coltello tranciò le teste e le estremità poco sopra le unghie. Incise quindi gli stomaci per lungo e con due dita sradicò le interiora e lanciò gli scarti nel campo vicino, dove un branco di gatti s’avventarono.

I piccoli corpi dai muscoli rosei e lisci erano pronti. Con due ferri appuntiti infilzò le schiene e li mise sul fuoco, né attaccati alle fiamme né distanti: teneva la buona misura per ogni operazione Tomaso. La carne prese a scurire e presto fece crosta, gli altri scrutavano e da un sacchetto tirarono fuori del sale e lo distribuirono, e ridevano nervosi, affamati. Non v’era differenza tra quei volti e i musi dei gatti selvatici, riparati dalle baracche di legno, ferro, plastica, tra il via vai dei bambini in quella vecchia festa di Natale.

«Conosco uno che ha un milione di acri coltivabili», disse un ragazzo che passava di fretta, tenendo per mano una ragazza.

«Se gli serve un milione di acri per sentirsi ricco, gli occorre perché è molto povero dentro», rispose lei, svanendo entrambi dietro un muro di ferraglia, tra i canti che andavano spegnendosi di lontano.

Tomaso prese i due conigli dal fuoco, strappò le cosce, poi le zampe anteriori e spaccò lungo la schiena il resto della carne.

A metà del mattino, le fiamme basse, creavano già ombre sulle nostre facce. Non c’era nulla da dirsi: mangiare a piena bocca, ecco cosa aveva senso; zittire la fame, calmare la pancia. Era, quella, una felicità arcaica; il primo, e incontaminato, grado del Natale.

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