Dopo aver camminato nel continente europeo Per antiche strade, pubblicato da Iperborea nel 2020, Mathijs Deen, scrittore e giornalista olandese, ci conduce per mare su La nave faro, il suo nuovo romanzo, da oggi in libreria, tradotto da Elisabetta Svaluto Moreolo, edito sempre da Iperborea.
E’la storia di una nave, Texel, la nave faro “…Quella nave che rolla rolla e beccheggia in eterno,
Legata alla catena in mezzo al mare…”, al largo delle coste olandesi. E sulla nave “sotto il rumore del generatore diesel che saliva dal ventre della Texel si sentiva crescere un rombo più profondo” tra un pasto e l’altro servito dal cuoco Lammert con “ferrea regolarità per le quattro settimane passate a bordo”. I suoi marinai ed i suoi meccanici “aspettavano con ansia i pasti perché, come le tacche sul muro di una prigione, avvicinavano il giorno in cui avrebbero potuto lasciare quella nave incatenata”. Ricordi ammassati in un “labirinto oscuro” dove tutti i giorni sono prevedibili e identici, sino all’arrivo di un capretto, condotto a bordo, dal cuoco Lammert, per essere servito su un “piatto” come stufato. “Irrequieto per via del vento, della mancanza del pascolo e del suo gregge, del diesel della Zaandam, dello sbatacchiare delle bandiere e del fischio delle raffiche tra gli stralli,” il piccolo animale, sin da subito, spezza quei fili invisibili che la emozioni e le paure represse dell’equipaggio intessono. Una prospettiva intima e viscerale quella che Deen ci consegna, comune a molti, incatenati, ognuno a modo suo, al proprio passato, “buio come può essere buia la notte, buio come l’inferno. Con i fuochi solo all’orizzonte.”
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Beitske, l’unica contadina rimasta sulla collinetta, non teneva più mucche da anni.
Poco prima dell’introduzione della mungitura meccanica le aveva date via insieme ai secchi del latte e allo sgabello e aveva arato il pascolo con il trattore per seminare carote invernali. Dopo qualche anno si diede ai broccoli, un nuovo ortaggio di cui c’era una richiesta crescente. Così, passò dall’allevamento all’agricoltura. Ma non del tutto: non era mai riuscita a rinunciare al suo gregge di pecore. Non che con quelle guadagnasse davvero qualcosa, ma senza pecore alla fattoria non c’era più vita, e questo a lei, che era comunque una donna sola, pesava. I broccoli non parlano, e un intero raccolto di broccoli è un concentrato di silenzio. Così continuò a tenere una ventina di pecore, e in mezzo a quelle anche una manciata di capre che faceva figliare come le pecore in modo che, se un agnello veniva rifiutato o non riusciva a scegliere tra una madre e l’altra, c’era sempre una capra che aveva il latte e poteva adottarlo. I capretti invece li dava via il più presto possibile, soprattutto se erano maschi. Nei paesi del circondario si trovava sempre un bambino disposto a tirarne su uno con il biberon. «Le tengo ancora, ma sono cocciute», disse Beitske al cuoco, che era entrato nel
suo podere e le aveva chiesto se avesse già dato via tutte le capre. Una domanda superflua, preludio di una conversazione senza fretta. Chiunque poteva vedere che c’erano delle capre in mezzo alle pecore. «Guarda», disse, e precedette Lammert verso il lato della grande rimessa dal tetto di paglia da dove potevano affacciarsi sul campo ai piedi della collina. Lì pascolavano le pecore. Un piccolo gruppo di agnelli correva lungo lo steccato. Le capre se ne stavano tutte ammassate nell’angolo più remoto del prato. «Lo vedi? C’è erba in abbondanza.» «In abbondanza», ripeté Lammert. «Ma loro vogliono comunque uscire dal recinto, anche se hanno da mangiare a volontà. Vogliono sempre scappare, andare a vedere se c’è erba migliore da qualche altra parte.»
«Una capra vuole andar via», convenne Lammert. «Una capra vuole scappare», disse Beitske.
«Una pecora vuole restare per sempre con te», concluse Lammert.
«Haha», rise Beitske. «Una pecora sì.» Rimasero per un po’ a guardare il gregge, in silenzio. Alcune rondini scesero in picchiata sulle pecore non ancora tosate. «Ma se c’è da adottare un agnellino, le capre non fanno storie», riprese Beitske.
«Per questo continuo a tenerne qualcuna.»
«Vedo che hai ancora un capretto», disse Lammert.
«Non mi serve, ma non ho nessuno a cui darlo.»
«Le femmine hanno già tutte un maschio», osservò Lammert.
«E anche questo è un peccato», disse Beitske. Era una considerazione un po’ strana, ma Lammert non sentì il bisogno di sapere che cosa intendeva dire, e Beitske non aveva intenzione di spiegarglielo. Spalla a spalla guardarono il capretto, che fece qualche salto laterale con tutte e quattro le zampe insieme e finì sopra una pecora che giaceva sull’erba.
«Lo prendo io», disse Lammert. «Haha», rise Beitske.
«Dico sul serio.» Beitske lo guardò negli occhi e smise di ridere. «Per macellarlo», disse. «Naturalmente.» «Sì, sulla nave», rispose Lammert. Guardarono insieme il gregge ancora per
un po’. «È una carne squisita, dicono», aggiunse Beitske. «Lo farai tu?»
Il cuoco tacque, si sfregò gli occhi. Tossicchiò. Sembrava irritato. «Vengo a prenderlo la prossima settimana», disse. «Ti devo qualcosa?» «Sono anni che non chiedo più niente»,
rispose Beitske. «Alla prossima settimana», concluse Lammert e alzò una mano in segno di saluto.
Beitske ruminò per un po’ i suoi pensieri, poi si mise a ridere.
«Un animale così su una nave», gli gridò mentre si allontanava. «Sta’ attento, perché vorrà scappare.» «Lo vogliono tutti, là», disse Lammert, senza voltarsi.