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Matteo Meschiari. Dispacci dall’Antropocene #12

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Ogni persona che si è guardata almeno una volta nel suo specchio interiore si è chiesta se, vivendo questa vita, sia riuscita a fare qualcosa per lasciare un segno, per incidere almeno un po’ nel grande effimero dell’esistenza. “Sono solo un tubo digerente, un consumatore di ossigeno, un divoratore di biomassa, oppure qualcosa di me resterà qui in giro al di là di me? Che cosa ho fatto, insomma, per migliorare questo mondo?”. Spesso, quasi sempre, in un senso di urgenza che sa di fuga, distogliamo lo sguardo da quello specchio e ordiniamo il secondo spritz, soprattutto se le cronache globali parlano di guerra, cambiamento climatico e sistemi al collasso. Claire North, ne Le prime quindici vite di Harry August (2014), costruisce una macchina narrativa potenziale per capire che cosa succederebbe se ci fosse concessa una seconda, una terza, una quarta, una quindicesima occasione, potendo rinascere e riprovarci, potendo ricordare tutto e cercare una via di salvezza individuale e collettiva, come in Edge of Tomorrow di Doug Liman. Se il XX è stato il secolo dell’esplorazione dello spazio, in tutte le sue varianti, fino a una forma prevedibile di esaurimento, il XXI è già il secolo dell’ossessione del tempo, con tutti i paradossi vertiginosi che la Fine sta impiantando nel nostro immaginario. Ma il romanzo di Claire North non resta intrappolato nel discorso ciclico e nello sconforto da ripetizione. Il movimento delle molte vite di Harry August è asintotico, è un avvicinamento progressivo dell’irraggiungibile che reimposta l’idea stessa di tempo: «Il mondo sta per finire, come deve essere, da sempre. Ma la fine sta accelerando». Se la paura della fine è una costante antropologica, l’Antropocene è questa vecchia paura abitata a livello di specie da una nuova angoscia della fretta. Come Harry August, Homo sapiens ci prova all’infinito, ma l’infinito si è spezzato, c’è un Avversario che sta alterando il corso geologico, biologico e tecnologico della storia. Nel romanzo si chiama Vincent, nel mondo reale, se così si può dire, ha molti nomi: Colonialismo, Capitalismo, Neoliberismo, Irrazionalismo, Suprematismo, ma anche qualcosa di più insondabile, come la Schadenfreude o la Volontà di Morte. Primo Levi chiamava questo Avversario “violenza inutile”, Hannah Arendt “banalità del male”, Michel Houellebecq “annientamento”. E noi come dobbiamo chiamarlo nel Secolo Brevissimo? Quale volto visibile possiamo dargli per resistere e reagire? Mai come ora, per rispondere, c’è bisogno di chi, scrivendo fiction, sta cercando il punto di origine del nostro attuale paradosso. Tutto il resto è intrattenimento.

Matteo Meschiari

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