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Philip K. Dick, Tempo fuor di sesto/ Non è solo fantascienza!

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La domanda è ricorrente, un dubbio amletico: che tempi ci troviamo a vivere; anche il nostro è out of joint, fuor di sesto? E poi: che cos’è reale, qual è la realtà tout court dell’uomo?

Torniamo per un attimo indietro, alla vicenda di Amleto che presidia gli spalti del castello di Elsinore perché si vocifera che siano visitati da un fantasma, quello del padre assassinato che, da lassù, ancora desidera parlare e lanciare il proprio monito. Quel fantasma chiede vendetta, i tempi sono crudeli e non si può star tranquilli neanche da morti, o meglio, forse si è morti perché troppo tranquilli, da vivi, troppo insensatamente fiduciosi di potersi appisolare senza sospettare che qualcuno (interessato a prendere il comando) potesse versare un terribile veleno nell’orecchio di un dormiente.

La politica è una brutta bestia… la sete di potere distrugge l’equilibrio, che, una volta alterato, è difficile far tornare a posto. Ma si tenta di rimetterlo in sesto, un dovere, un’impresa necessaria, seppur fallimentare. Tenta, Amleto, di risollevare il momento storico e politico; e ci tenta Ragle Gumm, protagonista del romanzo di Philip K. Dick, Tempo fuor di sesto- non l’originario titolo voluto dallo scrittore, ma quello imposto dalla casa editrice, la Lippincott, che aveva intravisto la possibilità di far dialogare Dick con Shakespeare.

“Perché ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quanto non ne sogni la tua filosofia”, dice Amleto poco prima di pronunciare la celebre battuta: time is out of joint.

Lo sa bene Philip Dick.

Il mondo in cui si trova a vivere Ragle Gumm (in apparenza) è quello della fine degli anni ’50, una tranquilla cittadina, Old Town, dove non ha altro da fare che risolvere un quiz giornaliero, Dove si troverà l’omino verde?, un concorso- di cui è vincitore assoluto- del giornale la Gazette, che lui risolve sempre (in apparenza), non in maniera razionale, ma seguendo un metodo estetico, come suggerisce Lowery che va a consegnargli un assegno per una delle sue strabilianti vincite.

Una tranquilla cittadina, si diceva… in realtà dalla zona centrale di Old Town spuntano, come dal ventre del pianeta, degli indizi inquietanti di un tempo com-presente e sfasato, quello del 1997. È una terra desolata che dal profondo fa emergere un’altra verità: l’unico mondo possibile (o accettabile dall’autorità stabilita) è quello sotto terra perché la superficie è sconquassata dalla guerra civile tra sostenitori di mondi diversi, di possibilità diverse, tra terrestri e lunatici.

Cos’è reale, si chiedono a più riprese i membri della famiglia di Ragle.

E se lo chiede lui stesso notando che le cose non sono come sembrano, vi è di più. Vuole trovare la soluzione, cioè uscire dalla cittadina e andare a guardare il mondo vero, per non rimanere prigioniero di un complotto o di una psicosi paranoica.

Ragle si domanda se la sua sia una paranoia, se il suo io sia talmente dilatato da credersi il centro del mondo- una tematica cara a Dick, quella dell’io sconfinato, che tratta anche in The man in the high castle (da cui è stata tratta la serie tv, oggi alla terza stagione).

Non sa darsi risposta, Ragle Gumm.

Per averla deve lasciare Old Town, provarci (perché non sarà semplice), tentare di raggiungere il fondale dipinto, come in Truman Show-il film che molto deve al romanzo di Dick-, per scoprire che sì, lui è davvero il centro del mondo, ne governa le sorti risolvendo quel dannato quiz, che non è un gioco ma una tattica difensiva che lui imposta, pur non avendone più consapevolezza; perché Gumm ha scelto di estraniarsi dal presente e infilarsi in una fantasia regressiva: il richiamo del passato e la sua stabilità gli permettono di non sentirsi troppo pressato dalle responsabilità che gli gravano sulle spalle.

Ma il complotto esiste ugualmente, c’è sempre un potere superiore che detta legge, e allora è necessario che Gumm si riprenda la facoltà di decidere se quello sia davvero l’unico mondo possibile o se viaggiare, migrare, non sia invece l’essenza della libertà e un’esigenza insopprimibile dell’uomo, un’esigenza che può addirittura essere sperimentata senza intenti aggressivi!

Qui, il viaggio è qualcosa di assoluto che spezza il tempo, lo rende spazio; è “un istinto, il più primitivo degli impulsi, oltre a essere più nobile e complesso”, che però fa ripiombare Ragle in una dimensione nostalgica dell’infanzia, nella nostalgia di un padre e del suo tempo non troppo fuor di sesto, una proiezione fasulla in cui quel fantasma può ancora camminare sugli spalti di un castello o dar forma a una cittadina secondo modelli non più attuabili.

Certo, quella che racconta Dick, sempre attento al suo contemporaneo, è l’ossessione di un mondo paronoico, post Seconda Guerra Mondiale e Guerra Fredda; la condizione dell’uomo medio americano attanagliato dall’angoscia per le bombe, gli avvistamenti alieni, e i complotti; la paura della crisi economica, la spersonalizzazione del ceto medio, l’avanzata delle grandi corporazioni e della cultura pervasiva dei mass media. Il nemico è tutto intorno.

Anche noi, oggi, sentiamo di avere un nemico tutto intorno che preme alle porte della nostra apparente sicurezza. Come rispondere, come accoglierla e disciplinarla? Come conviverci senza che diventi una guerra civile tra chi abita una terra e chi chiede di entrarvi perché già altri la stanno abitando?

L’eterna, impossibile questione.

Dick sembra sostenere che il viaggio non può essere fermato, lo fa attraverso la vicenda di Ragle Gumm, il fool scontento della sua condizione e chiamato a raddrizzare il tempo; l’eroico solutore di quiz, affascinato dalla sua smorfiosa Junie-Ofelia; il melanconico ascoltatore della voce paterna; l’uomo che si chiede quale sia la sostanza della realtà e se vi sia una superiorità della parola sulla “cosa”, quale sia la relazione tra parola e oggetto: “La parola è la realtà. Per noi, comunque. Forse Dio arriva agli oggetti. Ma noi no”, si dice in uno dei suoi filosofici ragionamenti. E poi: “Come sono le cose in realtà? Devo vedere”.

E decide di agire pur di non pensarsi come uno di quegli uomini vuoti di eliotiana memoria, gli uomini impagliati per cui Fra l’idea/ E la realtà/ Fra il movimento/ E l’atto/ Cade l’ombra, come canta Eliot…

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