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Pordenone

La città consente di vedere senza essere visti, e di essere visti senza vedere. Dice l’iguana. Pordenone non esiste, Pordenone è un immaginario, Pordenone mica sanno dove è messa, gl’italiani, Pordenone in equilibrio tra il nulla e il mondo. Risponde il topo. Me ne sono andato tanti anni fa. Ma a volte ci torno, come oggi che il cielo ha il colore dei denti, bocca aperta sui palazzi crepati di bianco sul rosso. Ribatte l’iguana. Siamo più figli dei luoghi che dei genitori. Qui è nato il punk, e io sono il nipote del punk. Lo vedi il mio immaginario? Chiede il topo. Un paese mai diventato città, provincia cresciuta come enorme industria più che come comunità. La chiamavano Manchester d’Italia, per le fabbriche, le ciminiere, il grigio a coprire ogni angolo oltre il bel corso dei signori. Un mondo di terra e fossi diventato in pochi anni una distesa di cemento e asfalto. Ero una cucciola abituata a guardare l’erba e i sassi e mi ritrovai obbligata ad alzare la testa e contare le migliaia di appartamenti sollevati lì, in aria. Spiega l’iguana. Finestre come stelle attaccate col chiodo alla parete d’un vastissimo teatro popolare. Dichiara il topo. Di cosa hai paura? Chiede l’iguana. Della luce. Risponde il topo.

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