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Silas House anteprima. L’ascesa di Lark

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Profughi statunitensi che si rifugiano in Europa? Questo è il tema di L’ascesa di Lark (titolo originale The Lark ascending), l’ultimo romanzo dello scrittore americano Silas House, una tra le più importanti voci degli Appalachi. Il libro è disponibile in libreria tradotto da Gianluca Testani (Jimenez Edizioni 2023, pp. 232, € 19).

Il protagonista, Lark, ormai anziano, è anche la voce narrante del settimo romanzo di House.

Lark ripercorre il suo viaggio da giovane ventenne a bordo di uno yacht sovraffollato di profughi diretti dal Maine all’Irlanda. Questo spostamento è stato innescato dai devastanti incendi causati dal cambiamento climatico in America: “I fuochi ci raggiunsero. Li osservammo avvicinarsi per una settimana, salire da entrambe le sponde del lago. Una volta che le fiamme avessero scavalcato il fiume, sapevamo che avremmo dovuto andarcene”.

L’ambientazione è apocalittica: milizie aggressive e pesantemente armate, chiamate “i Fundies,” impongono una rigida dottrina religiosa che mette Lark, in quanto gay, nel mirino.

In fuga dall’incubo americano il protagonista osserva la sua terra per l’ultima volta: “Guardai il Nord America fin quando non fu più in vista. Prima solo una sottile linea viola all’orizzonte, poi una sagoma nera, poi: niente. Addio per sempre, pensai, ma non lo dissi a voce alta”.

Dopo un’ardua traversata in mare, che costa la vita a molti passeggeri, inclusi entrambi i suoi genitori, Lark arriva in Irlanda solo per scoprire che la situazione è simile a quella che ha lasciato in America: un paese bruciato e spopolato, dilaniato dalla guerra tra la resistenza e gli estremisti anti-immigrati i Nays: “Vengono chiamati Nays perché dicono di no a tutto”. Questi colpiscono e affondano lo yacht e Lark è l’unico sopravvissuto.

Così inizia un’avventura nell’entroterra, guidato dal ricordo delle ultime parole di sua madre morente: camminare fino a Glendalough, un antico insediamento monastico dove avrebbe trovato rifugio. Durante il percorso, stringe amicizia con un cane randagio di nome Seamus, una creatura rara in questo paesaggio desolato e crudele. Incontra anche Helen, una vedova armata di fucile, esperta della zona e alla ricerca del figlio scomparso.

Per una piccola parte la storia viene anche raccontata dal punto di vista di Seamus, il cane.

Questo è un racconto di coraggio, emigrazione, sopravvivenza e lotta per la libertà. È una fuga da un mondo in fiamme, alla ricerca di un nuovo spazio per riscoprire la propria umanità.

Carlo Tortarolo

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Per giorni osservai le acque blu scuro come se mio padre potesse emergere dalle onde e allungare una mano per farsi tirare a bordo, le gambe guarite dall’acqua salata. Mi tornò il mal di mare, ma questa volta pensavo che fosse non tanto il costante alzarsi e abbassarsi dell’oceano quanto la disperazione a farmi vomitare finché i conati non mi straziavano il corpo.

La comandante mi prese per le spalle. «Mettiti al lavoro sennò finisci come tuo padre» disse, con la sua grossa faccia accostata alla mia. Da così vicino potevo vedere una costellazione di lentiggini sul naso che rendevano il suo viso meno duro. Non la odiavo. Non provavo nulla. Svolsi il mio turno a governare le cime e mi accorsi che stare in piedi e fare qualcosa mi aiutava a placare lo stomaco. Molte ore dopo, la comandante comparve alle mie spalle. «Bravo» mi disse piano, come temendo che qualcuno potesse origliare la sua piccola gentilezza. «Ora vai e cerca di riposare».

Passarono molti giorni prima che mia madre mi rivolgesse la parola. «Lark, dobbiamo andare avanti» disse. Non aveva senso, perché io stavo andando avanti. Avevo lavorato alle cime da solo per dieci ore filate. Il lavoro mi dava più conforto dell’immobilità. Ma aveva capito che per alcuni versi mi stavo arrendendo.

Notai che era completamente cambiata negli ultimi due giorni. Nuove rughe le rigavano la fronte. Gli occhi erano infossati, gli zigomi più sporgenti. Sapevo che si era affamata per consentire a me e a mio padre di mangiare di più. Per una settimana non avevamo mangiato altro che una lattina di fagioli al giorno da dividere tra noi tre. A un certo punto, nelle ore successive alla sua morte, avevo avuto il cattivo pensiero che almeno ora avremmo avuto un po’ di cibo in più. Non potevo sopportare che una cosa del genere mi fosse passata per la mente. Me la figuravo, scintillante come un’anguilla elettrica. Occhi neri, spietati, famelici. Adesso sono vecchio, sono sdraiato qui su quello che credo sarà il mio letto di morte, e provo ancora un senso di colpa per avere avuto quel pensiero. Le labbra di mia madre erano talmente screpolate che sanguinavano in piccoli punti. Si muovevano. Stava parlando, ma io sentivo solo il vento.

Il suono eterno e incessante dell’oceano. Quello era il suono dell’eternità: il vento. «Non ti arrendere, Lark» stava dicendo quando riuscii a sentirla di nuovo. Pensai che avrei dovuto memorizzarla. Imprimere il suo nome negli occhi della mia mente. Le sue orecchie erano scottate dal sole, anche se per la maggior parte dei giorni c’era stato solo un cielo grigio. I suoi capelli erano arruffati. «Non possiamo mollare. Mi senti?».

Annuii. Non ci arrendiamo, avrei voluto rassicurarla, ma non riuscivo a sussurrare neanche quelle tre parole. Le dicevo solo a mente. Non ci arrendiamo. Una preghiera breve, perfetta.

Mia madre indicò il cielo. «Guarda» disse. Sopra di noi, nuvole blu-verdastre si agitavano con tale ferocia che pensavo si potesse sentirle gemere se non fosse stato per il rumore del vento. Una volta lei mi aveva detto che le nuvole verdi significavano che la terra era vicina. «Dobbiamo ancora raggiungere la parte orientale dell’Irlanda, Lark, ma siamo vicini. Se riusciamo a superare questa tempesta, entro domani avvisteremo la terra».

L’idea di un terreno solido sembrava ormai impossibile, ma sentir pronunciare la parola terra fece sbocciare la speranza nel mio petto, come quando le foglie secche prendono la scintilla e diventano fuoco. Annuii di nuovo, questa volta con maggiore enfasi, e in me si smosse qualcosa che mi fece sentire meno morto.

«Ma la tempesta porterà scompiglio. Devi tenere d’occhio le cime come non hai mai fatto prima».

«Non sono tanto bravo» dissi.

«Fai quello che ti dice la comandante e andrà tutto bene».

La notte scese su di noi e la tempesta non arrivava. Eppure sentivamo che si stava formando sopra di noi, ribollendo e sbuffando. Intorno a noi.

Lontano, sopra l’oceano, vedevamo i fulmini muoversi verso di noi; alla fine, la schiuma bianca in cima alle onde crescenti si illuminò. Ma la pioggia ancora non arrivava.

Le onde diventavano sempre più grandi, finché una gigantesca che rotolava verso di noi fu rivelata da una lunga striscia di fulmini. Un assordante fragore di tuoni seguì la coda dei lampi.

L’onda ci prese in pieno. Ci aggrappammo l’uno all’altro o a qualsiasi cosa riuscissimo ad afferrare. Io mi aggrappai solo alle cime. Tenni lo sguardo fisso sulle vele, ascoltando attentamente le istruzioni urlate da mia madre. La comandante era a poppa; gridava mentre cercava di governare la barca. Riuscii appena a capire cosa stava succedendo quando la vidi cadere in mare.

Ero intorpidito, non sentivo quasi niente quando vidi una, due, poi cinque, poi sette persone finire in mare. La barca si inclinò e procedette a strattoni mentre gli spruzzi volavano in ogni direzione.

Mi sentii fluttuare per aria e pensai di essere stato scaraventato fuori dalla barca prima di rendermi conto che mia madre mi aveva afferrato. Mi agganciò un salvagente arancione al petto e poi fummo entrambi scagliati sul pavimento di legno. Sbattei la testa e vidi le stelle. Lei si sdraiò sopra di me, tenendosi all’albero maestro. L’acqua salata mi riempì gli occhi e la bocca, fredda al punto da farmi urlare tutto il corpo. Il rumore intorno a noi era travolgente. Oceano e tuoni e urla e oceano, oceano. Il suono metallico del vento.

Sentii l’intera barca oscillare verso l’alto stando su un fianco con un’angolazione a novanta gradi. Intorno a me le persone si lasciavano andare, cadendo in acqua.

Quando uno dei due alberi si spezzò in due ci fu un terrificante scricchiolio, poi una forte scossa quando cadde sulla barca e schiacciò diverse persone col suo peso prima di rotolare in mare.

Ma poi mi resi conto che non ci eravamo ribaltati, che il Covenant si era miracolosamente raddrizzato e galleggiava sull’oceano, danneggiato ma intatto tranne che per la perdita dell’albero, che avrebbe dimezzato la nostra potenza di navigazione.

Mia madre era sopra di me e si reggeva ai resti dell’albero con tutta la forza che aveva, impedendo a entrambi di essere scaraventati in mare, proteggendomi dalla pioggia battente – adesso la sentivo, come pietre che ci martellavano – e dai fulmini.

Dopo un po’ si lasciò andare sul pavimento accanto a me, ansimando. Sentivo la tempesta allontanarsi sull’oceano, sollevando i lembi per prendere velocità, lasciandosi noi alle spalle. Lei mi aveva salvato, ancora una volta. Come aveva già fatto. Come aveva già fatto anche mio padre. Ma adesso lui non c’era più e c’eravamo soltanto noi due al mondo e nessun’altra persona a cui importasse se vivevamo o se morivamo. Sopra di noi non c’era altro che un cielo notturno di nuvole turbolente, e da qualche parte dietro la loro densità c’erano le stelle che diventavano blu. Ma io non potevo guardarle a lungo perché piccoli aghi di pioggia mi pungevano gli occhi.

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