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Thomas Melis. Milano. Il mondo non cambia

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Milano, tempi moderni.

Mi accingo alla lettura di questo promettente noir di Thomas Melis, autore ancora scarsamente conosciuto ma dal grande potenziale, con quella brama conoscitiva e la curiosità tipica di chi non sa, ma vuol sapere.

Sin dalle prime pagine mi trovo inserito nel contesto milanese in modo quasi brutale.

Inizialmente mi sento a disagio. Piccolo, ignorante, escluso.

Come un turista apolide, mi aggiro incompreso tra negozi, centri commerciali e vicoli di periferia, in cerca di aiuto. Ma dove sono?

Per fortuna c’è Google a porre argine alla mia ignoranza. E il buon Melis.

L’uso da parte dell’autore di termini dialettali, gergali, legati allo slang del posto, ha avuto il potere di immergermi nel mare multietnico della metropoli lombarda, come farebbe un tuffo a sorpresa, dopo aver ricevuto una spinta da dietro.

Ci vuole qualche pagina di pazienza e impegno, ma pian piano il senso di familiarità aumenta ed inizio a nuotare.

Tra brambilla e ganassa, zanza e sbarbati.

Tra mammasantissima e picciotti, malacarne e marichieddi.

Tra gafi (organo genitale femminile), zzoca (organo genitale maschile), love (denari).

Tra barella, zide, givingi (droghe di varia natura).

Sesso, droga e minchiate social occupano una buona fetta dei tempi moderni.

Simboleggiano potere e brama di esso, evasione verso l’edonismo, fuga dai propri fantasmi. Dalle proprie miserie.

Dietro le descrizioni paesaggistiche e di costume, c’è un lavoro di studio da parte di Melis, sia riferito alla quotidianità, sia alla storia di questa metropoli, che merita ammirazione.

Le varie zone, i quartieri, le comunità straniere vengono vivisezionate nel minimo dettaglio. Melis tratteggia in modo convincente la Milano 2020, così diversa da quella anni 80.

Una Milano multilingua, multicolore, multi qualsiasi cosa. Dove c’è una convivenza apparentemente pacifica tra le varie parti che la compongono. Apparentemente.

Le seconde e terze generazioni di chi la popolò anni fa, emigrandovi, rappresentano parte della gioventù di oggi, con lo slang specifico che la caratterizza, la musica trap, lo sballo ad ogni costo.

E nella capitale italiana dell’economia, della modernità e del poliglottismo, quale anomalia strisciante e silenziosa può inserirsi? Quale livido sotto pelle?

La più antica delle organizzazioni criminali. Quella più legata a codici, regole, rituali di appartenenza al limite del ridicolo, ma solo agli occhi di chi non appartiene.

La mafia forse più spietata: la ‘ndrangheta.

Con una fame di espansione tale, nonostante l’apparenza dimessa, da riuscire a valicare non solo i propri confini regionali, ma anche quelli nazionali.

La prerogativa per i propri affiliati, picciotti, santi, o capibastone che siano, è quella di dover rispondere sempre e comunque dei propri traffici alla mamma.

La mamma è dove tutto ebbe inizio.

La sede storica e intoccabile del Crimine, nato tra i silenzi e il freddo dei casolari, il paesaggio brullo, le capre al pascolo e le coppole in testa.

Alle pendici dell’Aspromonte.

Il romanzo, nella sua architettura abbastanza complessa, in una prima parte alterna una narrazione diluita e frammentaria a pagine di pura didattica.

Melis spiega in maniera efficace le dinamiche criminali di insediamento e proliferazione in terra “straniera”, accentuando il concetto di come siano le debolezze umane, unite alle difficoltà economiche, a creare l’humus ideale per rendere la Malavita il potere occulto imperante all’interno della società.

Come un virus, entra nel tessuto sociale e dall’interno si nutre della creatura appena infettata, fino a renderla propria. Non la uccide, la rende assimilabile e poi fagocitabile.

Il tutto in una città come Milano prevede inevitabili alleanze con le altre comunità, le rispettive criminalità aggregate e il supporto fondamentale del mondo di mezzo. Vale a dire quell’universo di furbastri e faccendieri senza scrupoli, che si prende cura di tutti quegli escamotage legali, atti a rendere “la società” praticamente invisibile.

Il “Sistema” deve agire nell’ombra, facendo finta che non esista.

Filippo Barone interpreta in modo mirabile questa figura, che è centrale nella narrazione. Un uomo cinico, concreto, che trova il proprio riscatto sociale, prestando servizio a uomini di malaffare e strizzando l’occhio a politici senza scrupoli.

Alleandosi con chiunque sia in grado di garantirgli love a sufficienza.

A metà libro, quando noto i fili di cotone che dividono una pagina dall’altra, il romanzo prende uno stampo più classico. Iniziano i colpi di scena in sequenza, il crescendo costante. A Milano, ‘pe supra, sono gli Alfieri e i Procopio, famiglie alleate e rivali al tempo stesso, a gestire il territorio sud.

I secondi, stanchi di essere la ‘ndrina subalterna, iniziano ad avere propositi espansivi.

I “capibastone” oramai arrancano, colpiti da un’inevitabile senilità e i figli non riescono a contenere la propria ambizione e sete di potere.

L’ingranaggio si inceppa, gli equilibri precari saltano.

Le alleanze, generate più dalla convenienza, lasciano il posto all’odio dell’uno contro l’altro.

Iniziano i morti, i funerali, la rabbia, la voglia di vendetta.

Ognuno crede di essere artefice del proprio destino, quando invece è “la mamma” ad aver già deciso per tutti come deve andare a finire.

In un clima del genere, è sufficiente un tragediatore più lucido e con le vene meno gonfie di raggia a sopravanzare nelle gerarchie.

C’è un senso di prigionia in questi personaggi, alla fine schiavi di quella stessa “società”, alla quale hanno dedicato i propri giorni, abbandonando ogni ambizione di coscienza.

Per alcuni di loro la morte appare davvero come una liberazione.

“Barone, Barone, ma cu t’a faci fare? Vedi che nella strada dove ti infilasti ci vuole niente che il tempo si gira a brutto e incomincia a grandinare piombo. Credi che al Supremo gliene fotte qualcosa della fine che fai, dopo che ti ha usato come una pezza?

Sei una pedina quanto me, Alfieri. Non fare lo splendido. Se il senatore dice che devi muovere a sinistra, tu vai di corsa a sinistra. Se dice che devi finire in fondo a un burrone, ti ci butti a pesce e senza una parola. T’hee capii?”

Ho scelto questo dialogo, in quanto esaustivo di quanto chiunque, anche nel mondo criminale, abbia al di sopra qualcuno a cui render conto.

Nella mattanza che può mietere qualsiasi vittima, sicuramente ‘U supremu non verrà coinvolto. Il politico, il senatore, ha tutti in scacco.

Non c’è Apocalisse che tenga per ‘U Supremu. Quella stessa Apocalisse paventata già da inizio narrazione, sarà solo una delle tante opportunità per accrescere il proprio potere.

U’ Supremu è uno scarafaggio di gran classe.

Giudicando nel complesso il romanzo, devo dire che Melis ci consegna un’opera degna di tutto rispetto.

A suo favore, c’è un aspetto molto importante.

Al contrario di altri prodotti similari, egli non mette in atto il trucchetto della stimolazione dell’empatia del lettore nei riguardi delle forti personalità criminali.

Non ho provato alcuna simpatia.

È ovvio che ‘Micu Bang Bang O ‘U Dottori non posseggano la ferocia romantica del Libanese, né l’alone epico e melodrammatico de l’Immortale.

Sono tutti personaggi basati su una realtà di fondo, più credibili che affascinanti.

Se ho provato un solo sentimento, è quello della pena.

Per le donne legate al “sistema”. La loro triste sottomissione. I loro abiti scuri e gli sguardi chini a terra. Le loro vite sacrificate in nome di un potere, che con la famiglia, quel che dovrebbe essere il verso senso della famiglia, non ha nulla a che vedere.

Ma questa è famigghia. Un’altra storia.

Di nuovo quel senso di prigionia, al quale solo la morte può dar sollievo.

Milano il mondo non cambia non è un libro che “si divora”, anzi.

È un’opera che si assapora e si deglutisce pian piano e poi si ripensa, perché fa riflettere.

Melis scrive in modo approfondito, con occhio da fotografo della realtà.

L’uso dei dialetti è spinto, ma è funzionale a far entrare il lettore dentro la scena.

Io divido sempre i libri in due categorie: quelli che ti lasciano qualcosa e quelli che non ti lasciano nulla. Questo libro mi ha lasciato parecchio.

Mi sento più ricco di prima che lo incontrassi.

Paolo Raimondi

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