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Tiffany Tavernier anteprima. L’amico

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Figlia del regista di culto Bertrand Tavernier, autore tra l’altro di un film capolavoro come “Colpo di spugna” tratto dal romanzo di Jim Thompson, Tiffany Tavernier è la nuova voce della letteratura francese. Non ha invero molta concorrenza (Amelia Nothob si è eclissata tra i suoi stessi libri, Lorette Nobecourt si è persa nei suoi romanzi da “scorticata viva” come il suo primo e splendido romanzo “La conversazione”, Yasmina Reza appartiene ad un’altra categoria) ma da anni la letteratura francese non ci offriva qualcosa di realmente nuovo sul fronte declinato al femminile. Siamo ancora al divario scrittori uomini e scrittori donne ma è una realtà che esiste. Anche perché Tiffany Tavernier è la più maschia tra le scrittrici: questo suo “L’Amico”, da oggi nelle librerie per Edizioni Clichy, è tra il Carrere de “L’avversario” e il Michel Houllebecq de “L’estensione del dominio e della lotta” (la raccolta di poesie, non il romanzo) pur mantenendo intatta la propria voce narrativa. Sono solo due coordinate letterarie per meglio sintetizzare lo stile di scrittura di Tiffany Tavernier: lama lucente tra la poeticità del senso della frase.
Sarebbe riduttivo definire questo romanzo un thriller, anche se la trama e la voracità del registro narrativo lo lascerebbero intendere. Entriamo nel libro.
Due case isolate nella campagna. Una notte, le sirene suonano e la polizia arriva nel cortile. Dalla finestra dell’altra casa un uomo assiste stupito all’arresto dei suoi vicini, Guy e Chantal. La scena d’apertura è meravigliosamente cinematografica e questo è evidente in tutto il romanzo, che si svolge come un film noir, ambientato nelle province francesi.

Per rafforzare la vicinanza del lettore alla progressione drammatica, la narrazione è in prima persona attraverso lo sguardo del vicino di casa Thierry.
Cosa è successo? Gli indizi? la finestra rotta da una ragazza che cerca di scappare, il lenzuolo trovato intorno a un corpo sepolto, il capanno che serviva da prigione per le vittime, i dolci per attirarle. Elementi narrativi sapientemente raccontati per condurci in un abisso senza nome.
Tiffany Tavernier è bravissima nel trasformare i fatti sociali in introspezione psicologica, ma soprattutto a farci chiedere: Come interferiamo con la realtà del nostro tempo? Perché alcuni di noi hanno più probabilità di altri di perdere l’equilibrio?
La risposta non la trovate nella trama – il miglior amico dell’io narrante si rivela l’assassino di ragazze che da anni scompaiono-  ma nelle crepe morali che l’autrice riesce a creare nell’indifferenza di noi mangiatori vittime e carnefici di crudeltà televisive che si chiamano realtà ma che siamo abituati a dimenticare nell’attimo stesso in cui cambiamo canale.

Gian Paolo Serino

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Poi arriva il furgone. In un silenzio di morte, viene a parcheggiare a pochi metri da noi. Le porte si aprono, e finalmente lo vedo. Manette ai polsi, circondato da quattro poliziotti, Guy avanza senza sembrare minimamente turbato. Arrivato dove siamo noi, abbraccia con lo sguardo il gruppo senza mostrare, di nuovo, nessun imbarazzo, se non per un movimento di sorpresa, quasi impercettibile, nel momento in cui mi scopre. Non so cosa mi trattiene dall’afferrargli il braccio e intimargli di guardarmi, io, l’amico che ha tradito con così tanta violenza. Lui schiva il mio sguardo, la giudice prende la parola.

«Prima andremo nella cantina in cui il signor Delric teneva prigioniera la signorina Fitoussi. Poi usciremo in giardino per il resto della scena».

Si volta verso di me.

«Stia pronto in camera sua. Uno dei nostri uomini l’accompagnerà. Aprirà la finestra solo al suo segnale, ha capito?».

Annuisco, silenzioso. Lei fa segno al resto del gruppo. «Benissimo, allora. Andiamo».

Guardo Guy allontanarsi con loro. Una voce mi chiama. «Viene?».

È il poliziotto che la giudice mi ha assegnato. Un ragazzo che mi fa pensare a Marc. Come andrà con la sua petizione per la foresta? E il suo lavoro?

«Qualche problema?»

«Ho dimenticato le chiavi in macchina. Torno subito». Mi allontano chiedendomi cosa starà succedendo nella cantina che si è curato di insonorizzare, se quel porco si presta al gioco, se i genitori resistono. Una volta tornato, attraverso l’ingresso senza nemmeno dare un’occhiata alla cucina e al salotto. Guy occupa ogni mio pensiero. Guy che voglio assolutamente veder cedere. Sempre seguito dallo stesso poliziotto, entro nella nostra camera. Stranamente l’assenza di Lisa non mi fa traballare, sono perfino sollevato di non trovarla. Tutto ha un odore terribile da quando è tornato. Attraverso la stanza, mi pianto davanti alla finestra sperando che il ragazzo non si senta costretto a parlare con me. Ho un tale bisogno di sentirlo, questo silenzio, nello stesso istante in cui, in cantina, si rievoca la scena con le sue urla. Tendo l’orecchio, spio il minimo rumore. Tutto è così calmo. Passano i minuti, interminabili. Niente. Non il minimo suono. Poi eccoli che ricompaiono: la madre con quella follia da guerriera negli occhi, il padre, con il volto coperto di lacrime, gli altri, compreso Bretan, che cercano bene o male di riprendersi, e finalmente Guy, lo sguardo fisso, sempre sicuro di sé. Vedo la giudice chinarsi e chiedergli qualcosa all’orecchio. Impassibile, lui indica con il dito la quercia dietro la casa. Subito, due poliziotti ci poggiano il manichino. Pazzo, come osa? Alle mie spalle, il ragazzo riceve un ordine.

«Bene, adesso può aprire la finestra».

Eseguo, folle di rabbia. La giudice solleva lo sguardo su di me.

«Questa posizione le sembra corretta?»

«No, sta mentendo!».

Disagio nella piccola assemblea. Cerco Guy con lo sguardo. Lui si volta dall’altra parte.

«Le urla che ho sentito venivano dalla parte opposta. Me lo ricordo benissimo. Guy, perché non glielo dici?». La giudice, sotto.

«Conferma, signor Delric?».

Quel leggero alzare le spalle. Come se si trattasse di un dettaglio insignificante. Mentre la ragazza si stava giocando la vita.

«Se lo dice lui…».

Trattenere la collera che mi monta dentro. Pensare ai genitori, alla piccola vittima, al suo corpo scomparso e sul quale ancora non possono piangere. A un cenno della giudice, e sotto lo sguardo indifferente di Guy, i due poliziotti spostano il manichino dalla parte giusta. La voce della giudice, appena più aggressiva.

«Prenda posto, signor Delric».

Con passo tranquillo, si piazza davanti alla sagoma sdraiata. La giudice solleva di nuovo lo sguardo su di me.

«Questa posizione le sembra più corretta?».

Battito del mio cuore che accelera. Annuisco, sconvolto. «Benissimo, signor Clavaud. Ora le chiedo di interrogare il suo vicino cercando di essere più aderente possibile a quello che le ha detto quella notte».

Non guardarlo. Chiudere gli occhi, ricordare… Dormi, è molto tardi e d’improvviso quell’urlo o piuttosto un raglio che mi fa aprire gli occhi. Una bestia ferita? Mi alzo facendo bene attenzione a non svegliare Lisa, mi avvicino alla finestra. La notte fuori. Buia e larga. E di nuovo quello strano urlo. Apro la finestra.

«C’è qualcuno?».

Lui continua a fissare il manichino senza aprire bocca. La giudice alza il tono.

«Signor Delric, la prego di collaborare, per favore!».

Ma è come se non esistessimo più. È quasi come se ridesse. I due genitori, sotto, schiacciati. La voce della giudice. Sempre più acuta.

«Signor Delric, cosa ha risposto al suo vicino?».

Silenzio assordante del mondo. La giudice, tutti noi, sull’orlo dell’abisso.

«Signor Delric, mi sente?».

Non mi trattengo più. Mi metto a urlare.

«Guy, rispondi! Rispondi ora!».

La sua sagoma, in lontananza, che non si muove. Le altre, tutte le altre. Bocca aperta. Le foglie immobili degli alberi. Il manichino. I nostri corpi. La giudice di nuovo. La sua voce, seguita da un singhiozzo pesante, quello del padre o della madre, di entrambi forse, e poi, improvvisa, quella forza inaudita in me, quella forza che mi spinge. Il giovane poliziotto sgomento, «ma che cosa sta…», il giovane poliziotto che spingo con tutte le mie forze e che. Le scale per cui mi precipito, l’ingresso, la porta che apro. Luce, luce del giorno che evito. Il mio corpo improvvisamente così spaventoso. Così spaventoso e così rapido. I loro occhi non capiscono, i loro occhi, i loro corpi, ma c’è davvero ancora qualcosa da capire? Eh, Guy? Cosa, in questo mondo marcio in cui, dalla notte dei tempi, tu conduci le danze e in cui, di fronte alla nostra impotenza, i più innocenti muoiono, oltraggiati dalle tue mani? Il mio corpo scuro adesso, la mia bocca, la mia lingua, i miei denti. Scuro di quel te che finalmente raggiungo, quel te che non cerca nemmeno di evitarmi e su cui mi getto. Onda scatenata e furiosa che balza e si abbatte su tutta la tua carne, Guy, la tua carne sanguinolenta che adesso voglio distruggere e mordere e fare a pezzi, io, tutte le loro urla di spavento riunite nel mio corpo, io, l’abiezione, la bestia, terrore spalancato di tutte loro e che, in un ruggito, si schianta addosso a te, Guy. Sotto choc, vacilli e cadi all’indietro.

Di lontano, come in un’eco, sento la voce della giudice che mi intima di fermarmi. Alzo la testa, vedo degli uomini, al rallentatore, che corrono verso di me. Lo spazio e il tempo si sono scissi. Qui, quello folgorante del mio odio. Là, quello disteso e lento dell’inebetimento. Allora finalmente ti massacro, Guy. E con quale godimento. Ogni colpo che porto è di una terribile violenza. Ti spacco la mascella. Ti farò urlare, Guy. Urlare i loro nomi. Urlare la loro sofferenza, la mia, il tuo tradimento. Sangue che schizza e di cui mi metto a reclamare la vista. Ti ridurrò in poltiglia, Guy. Farti pagare ogni loro morte, a te a cui avevo dato il posto di Abdane nel mio cuore e che mi hai preso tutto, perfino Lisa, il mio amore.

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