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Gustaf Skördeman anteprima. Parola d’ordine Geiger

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Il 15 marzo esce in Italia “Parola d’ordine Geiger”, il libro d’esordio, edito da Rizzoli (trad. Alessandro Borini e Samanta K. Milton Knowles), di Gustaf Skördeman, sceneggiatore, regista e produttore svedese. Primo romanzo, il suo, di una serie con protagonista l’agente Sara Nowak che “ora andava fiera della sua altezza e del suo colore di capelli, ma se li tingeva comunque di castano per non essere troppo riconoscibile in caso di appostamento. Avere gli sguardi delle persone su di sé non le piaceva. Soprattutto quelli degli uomini, dato che il suo lavoro nella squadra Antiprostituzione le aveva fatto associare gli sguardi di desiderio a individui molto sgradevoli”.

Nel caldo di inizio estate la famiglia Broman, apparentemente insospettabile, diventa il palcoscenico di indagini oltre i confini temporali e nazionali della Svezia. L’inizio è già un colpo di scena e di “pistola”, sparato, senza esitazione alcuna, alla testa dell’ultraottantenne Stellan, personaggio televisivo famoso e molto amato, ritiratosi a vita privata con la consorte Agneta.

Geiger è parola di mistero e ordine perentorio che scorre “squillante” pagina dopo pagina. Passato e presente si intrecciano come i personaggi di cui non si perdono “le tracce”, dalla Guerra Fredda ai giorni nostri. Sottotrame storiche confluiscono in una narrazione “visiva”, a tratti di spionaggio, a tratti poliziesca. Eppure nel multistrato scenico della parola scritta è la condizione umana ed il suo costo che vengono evocate, senza eludere ad arresti misteriosi e a mondi da portare a conoscenza.

Claudia Caramaschi

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Le tazze da caffè della Royal Copenhagen erano ancora in tavola con dei piccoli rimasugli sul fondo, le alzatine per biscotti erano state saccheggiate e i bicchieri di sciroppo alla frutta svuotati fino all’ultima goccia. Tovaglioli a pois blu giacevano alla rinfusa, intonsi o impiastricciati. La tovaglia era piena di chiazze di caffè e di briciole, e i bicchieri si erano lasciati dietro dei cerchi rosso chiaro un po’ ovunque. Le sedie erano scostate dal tavolo, da quando i più piccoli erano corsi via. Adesso metà dei ragazzi stava passando il tempo sul divano di Josef Frank. L’altra metà correva qua e là gridando esagitata e gonfia di zuccheri. Dal nulla giunse una pallina da tennis che per fortuna rimbalzò sulla parete tra i piatti-souvenir di varie località d’Europa: Berlino, Praga, Budapest, Parigi, Rostock, Lipsia, Bonn.

L’ultima settimana di scuola i nipoti l’avevano passata a casa dei nonni materni, così che i loro genitori erano potuti andare in vacanza in Bretagna. Le sorelle Malin e Lotta volevano tanto approfittarne prima che la pausa estiva avesse inizio e mezza Svezia si riversasse in Francia. Nel corso della settimana appena trascorsa il nonno Stellan aveva trovato rifugio nello studio mentre la nonna Agneta aveva preparato colazioni e cene e accompagnato i nipoti, andata e ritorno, a scuola e alle attività del tempo libero. Oltre a vigilare sulle loro nuotate dal pontile in quelle serate straordinariamente calde di inizio estate. Era stata sempre lei a raccogliere e mettere in borsa boccagli, pinne, costumi da bagno, occhialini, i pezzi del kubb e quel che restava della crema solare. E poi tutti i vestiti, tablet, cavetti caricabatteria e libri di scuola. E adesso entrambe le sorelle erano lì con i loro mariti a riprendersi i figli. Era quasi come se la casa stesse tirando un sospiro di sollievo per il fatto che presto il caos avrebbe lasciato spazio alla pace e tutto sarebbe tornato alla normalità. La porta che dava sul giardino era aperta e là fuori Lotta camminava accanto al vecchio padre mentre lui le indicava le ultime aggiunte ad aiuole e aree dedicate alla floricoltura. La maggior parte dei fiori li conosceva già, ma ce n’era qualcuno di nuovo. Fatta eccezione per i suoi preferiti, che facevano sempre bella mostra di sé, a Stellan piaceva cambiare spesso gli altri. Trovava che i fiori raggiungessero il massimo del loro splendore appena prima di sbocciare. Quando le gemme cominciavano a creparsi. Sua figlia la vedeva diversamente. Lotta ascoltava con attenzione mentre Stellan le illustrava con entusiasmo quei capolavori floreali. Rudbeckia, malvarosa, speronella blu, dulcamara che era spuntata per conto proprio, origano, menta, achillea millefoglie e ginestrino. Amava i suoi fiori, e Lotta ripensò a quanto tempo suo padre avesse trascorso in giardino mentre lei cresceva. Non era permesso disturbarlo in quelle occasioni, però si sapeva sempre dov’era. Quando Stellan si fermò per riprendere fiato, Lotta si voltò con discrezione e fece finta di esaminare la casa – quella casa dalle linee essenziali, di ispirazione funzionalista, che conosceva come le sue tasche e che in realtà non aveva nessunissima ragione di stare a guardare. Le ampie superfici finestrate e le due terrazze con la fantastica vista sul Mälaren e su Kärsön. Poi lo sguardo si posò sul vialetto del giardino, le dodici pesanti lastre in pietra sulle quali lei e la sorella avevano corso così tante volte e che Stellan scherzosamente chiamava «il modello dei dodici passi verso una vita migliore» perché conducevano al capanno. Là dentro poteva dedicarsi indisturbato a ciò che amava di più nella vita. Mettere in posa quelle lastre in pietra era stato così difficile che Stellan aveva dichiarato che sarebbero dovute rimanere lì in eterno. E finora di anni ne erano passati quaranta, quindi era probabile che la profezia del padre si avverasse.

Lotta lo osservò. Nonostante gli ottantacinque anni, di testa era lucido come sempre, ma il corpo era ormai stanco, e l’età si faceva sentire, a tal punto che ormai quando si radeva gli sfuggivano alcune zone sul collo. Era sempre stato alto, però adesso era curvo. I grandi occhiali, che fin da quando lei riusciva a ricordare erano stati il suo segno caratteristico, era facile che gli finissero di sbieco, e lo sguardo dietro le lenti era intorbidito. Lotta era imponente quasi quanto il padre, per il resto non erano particolarmente simili. I capelli del padre erano stati color biondo cenere, quelli della figlia erano neri. Un’eredità della determinata nonna paterna, secondo quanto diceva Stellan. E se lo sguardo di lui era amichevole e caloroso, quello di lei era indagatore e scettico. «Non è che possiamo sederci un momento?» disse Lotta, notando che il padre era ancora stanco e sapendo che non l’avrebbe mai ammesso. Si accomodarono sulla logora panca verde davanti al capanno. Stellan si sventagliò con un piatto di carta sul quale c’erano stati dei bulbi da fiore, e Lotta si asciugò il sudore dalla fronte. Il caldo cocente sembrava quasi innaturale. Aveva stretto l’intero Paese nella sua morsa fino alla fine di maggio, e adesso che era giugno non sembrava volersi attenuare.

Quante di quelle volte erano stati seduti lì insieme. Una panca per riposarsi, ma con tutti gli attrezzi a portata di mano: un posto per recuperare le forze e al tempo stesso ripartire con il lavoro. Almeno in teoria. All’interno del capanno c’erano pile di mobili da esterno e attrezzi da giardino che non venivano usati da decenni. Zappe per estirpare le erbacce, irrigatori, l’innaffiatoio in rame, l’amaca a righe ormai ammuffita e i vecchi lettini prendisole scricchiolanti con cui le sorelle amavano giocare da piccole. Prendevano il sole tra i cumuli di neve già i primi giorni di primavera, la «tintarella di nuvole» nelle grigie giornate estive, giocavano per estati intere fingendo che i lettini fossero barche, automobili, aeroplani, razzi spaziali o pontili da cui loro saltavano giù dentro un’acqua immaginaria. Quando si erano fatte troppo grandi per giocare, i lettini erano finiti nel capanno, dove erano rimasti. Su quei lettini, in tutta segretezza, ci aveva invece trovato ristoro Stellan tra un lavoro di giardinaggio e l’altro, venendo smascherato però dal leggero cigolare che si udiva anche da fuori. Ora il capanno era più come un monumento a un tempo andato. Solo il tavolo da esterno veniva portato fuori ogni anno dal giardiniere Jocke, che appariva puntuale come un orologio pur essendo in pensione da un bel po’. Neanche accettava di farsi pagare. Si presentava ogni settimana fin da quando Stellan e Agneta, da sposi novelli, si erano trasferiti in quella casa all’inizio degli anni Settanta e così era andata anche dopo il pensionamento, senza che lui lo avesse domandato né che gli fosse stato chiesto. Forse era quella routine a tenerlo attivo. Lotta dischiuse la porta del capanno e il calore la investì. L’arsura estiva dava l’impressione di stare in un vero e proprio forno. «Quella finestra non la riaprite?» gli chiese indicando il pannello di compensato inchiodato alla parete posteriore. «Siamo cresciute, non c’è più il rischio che spiamo.» «No, però adesso ci sono delle nuove piccole spie» rispose Stellan con un sorriso. «Che si interessano soltanto ai loro schermi.» «Chiederò a Jocke di toglierlo. La finestra dà su una bellissima kolkwitzia, ma io non ci sto più tanto spesso qui dentro.» «Per niente, direi» fece Lotta, e lasciò che lo sguardo si soffermasse sui lettini che stavano arrugginendo.

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