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Tove Jansson anteprima. Campo di pietra

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E’ in libreria, nella traduzione di Carmen Cima Giorgetti, edito da Iperborea, Campo di pietra di Tove Jansson, autrice acclamata in tutto il mondo per i suoi libri per l’infanzia, la serie dei Mumin, apparsi negli anni’40, tradotti anche in Italia, portati sullo schermo con grande successo negli Stati Uniti e che le valsero il Premio Andersen. Considerata “monumento nazionale” in Finlandia iniziò a dedicarsi dagli anni ’70 anche alla scrittura per gli adulti e in Italia, sempre pubblicati da Iperborea, sono suoi: Il libro dell’estate (1989), L’onesta bugiarda (1990), Viaggio con bagaglio leggero, La barca e io (2005), Il libro dell’inverno (2013), Fair play (2017). Scritto nel 1984 Campo di pietra è la rappresentazione di una famiglia distrutta e sintonizzata sull’ossessione delle parole, sulla ricerca di quelle più giuste e sulla lotta contro il loro abuso.

Tove Jansson scrive della «pericolosa tendenza delle parole ad alterarsi». Cinquant’anni dopo, in tempi di fake news, hater e sistematica diffusione in rete di mezze verità e di menzogne, le sue considerazioni sembrano come un presagio.” Tuttavia, la vocazione al linguaggio può rivelarsi incomprensione, distacco, angoscia della scrittura e solitudine. Come quella del giornalista Jonas, intento, durante la sua prima estate da pensionato, alla stesura della biografia di un uomo che odia, oltre che ad esigere dalla sua famiglia la cura precisa della lingua. Jonas ha lavorato per tutta la vita con le parole; eppure, nello scrivere la biografia “gli sfuggono”, cerca “la chiarezza. Sapere cosa si vuole dire e trovare gli strumenti per farlo”. La biografia diventa così’ superficie riflettente delle rese, dei fallimenti, delle omissioni di una vita che rotola come pietre di un campo, “una contro l’altra producendo un odore di fosforo e petardi.”

Claudia Caramaschi

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Le belle giornate si susseguivano una all’altra. A volte verso il tramonto capitava che a Jonas venisse voglia di addentrarsi in quel bosco non ripulito, ma poi non lo faceva. A giorni alterni le figlie arrivavano a riordinargli la stanza. Il loro bisogno di pulizia era stupefacente e Jonas si domandava se tutta quella forsennata mania di mettere ordine – nella sua stanza, nel bosco, nella sua vita – non fosse la proiezione di qualche specie di paura o di rivolta. Tutt’a un tratto gli tornarono in mente i primi giorni della guerra: ovunque sui balconi si vedevano donne che battevano con furia i loro tappeti; che queste mie figlie stiano facendo pulizia in vista di una mia presunta prossima fine, magari per scongiurarla? O sono soltanto come loro madre, che portava sempre fuori i tappeti quando era spaventata, o non capiva. La mattina, appena sveglio, era il suo primo pensiero cosciente: Oggi vengono. Tirava fuori il copriletto di pizzo dall’armadio e lo stendeva con cura sul letto, spargeva i suoi appunti sul tavolo e prendeva la lampada dalla mensola per indurle a sperare che avesse lavorato proficuamente fino a tardi nella notte estiva. Ogni tanto, mentre Karin e Maria erano occupate a pulire, andava a sedersi nella sauna a riposare un po’ gli occhi, la finestra lì non era più grande di una gottazza, un quadrato rassicurante di erba illuminata dal sole. Weckström aveva costruito tutto con scrupolo etnografico. Ma il più delle volte andava all’emporio a comprare il giornale. Grazie a Dio, le figlie non si erano abbonate. Aveva preso l’abitudine di fermarsi a leggerlo sulla via del ritorno, sempre all’altezza del pascolo dei Weckström, dove le mucche dondolavano placide le loro lunghe code; si sedeva sulla scaletta della recinzione e si lasciava sfilare davanti, pagina dopo pagina, tutti i guai del mondo – finché di colpo, un giorno, gli capitò il fatto strano e inquietante di non capire quello che stava leggendo.

Fu costretto a rileggere daccapo ogni singola frase, più volte, continuando a notare gli errori e le ripetizioni, ma dovendo fare un ulteriore sforzo mentale per capire di cosa realmente si trattasse. All’inizio si spaventò, ma poi si rese conto che aveva a che fare 39 con Y, nient’altro che Y. Naturale. Sempre quella persecuzione. Nel frattempo le mucche si erano avvicinate, come facevano sempre, si mettevano alle sue spalle, così vicine che poteva sentire il loro respiro caldo e il loro odore rassicurante. Quando calcolava che avessero finito le pulizie, tornava alla sua stanza. C’erano sempre fiori freschi nel vaso, un bicchiere di latte, una fetta di torta o qualcun’altra di quelle piccole attenzioni piene di aspettative che trovava altrettanto vessanti di quel tempo anormalmente bello. Le sue carte erano intatte sul tavolo, ma stavolta gli avevano lasciato delle matite, matite da disegno comprate all’emporio. Hanno scoperto che non avevo matite. Sarà stata di certo Karin, Maria non avrebbe mai… Dirò, così en passant: curioso, ho sempre la mia Koh-i-noor in tasca… No, no, assolutamente no. Ma non è più possibile, non posso restare nella loro villeggiatura, devo tornare in città, non riesco nemmeno più a leggere il giornale, il mondo qui diventa ristretto quanto me. Ma se torno in città, ci ritroverò anche Y. Potrei gettare quello che ho scritto su di lui nella Cala del fango, come qui in paese chiamano la loro bella baia azzurra: la Cala 40 del fango. Melma, ecco cosa si trova se ci si avventura in acqua rimuovendo i detriti lasciati dai gitanti, qui niente può essere gettato in mare! E ovunque si volesse nascondere qualcosa, verrebbe comunque a galla, perché non si può far sparire quello che è corrotto, ogni fallimento è indistruttibile. Credo…

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