La sensibilità nipponica venne profondamente scissa dopo gli esiti disastrosi della seconda guerra mondiale; giocando in maniera sinistra con le onomatopee ci furono due “boom” edificanti nella coscienza del paese di Yamato. Il primo è il disastro atomico, uno degli eventi macro-storici più significativi dell’esperienza umana che venne rielaborato dai grandi nomi della letteratura giapponese in vere trattazioni di narrativa post-atomica e post-traumatica. Per citare alcuni esempi basti ricordare Ōe Kenzaburō, premio Nobel 1994. Nel campo della fantascienza ci fu un’ondata di scrittori occupati a codificare il dolore dei disastri di Hiroshima e Nagasaki, molte di queste esperienze speculative sono raccolte nell’antologia di fantascienza La Nave di Carta edita da Fanucci, i cui racconti provano a metabolizzare e a riadattare l’esperienza storica e l’abisso emotivo del popolo giapponese.
Il secondo “boom” è quello economico a seguito dell’occupazione americana dell’arcipelago del Giappone, con la firma del trattato di San Francisco del 1951. Il Miracolo economico giapponese (高度経済成長Kōdo keizai seichō ) fu un unicum nel panorama socio-economico del ‘900 asiatico, caratterizzato da un positivismo disarmante nonostante le recenti ferite che segnavano una nazione e il suo popolo. Ciò è evidente dal proliferare dell’industria elettronica e poi tecnologica oltre che siderurgica, le metropoli iniziarono a diventare labirinti di cemento in cui ospitare i salaryman, uomini incatenati alla fede aziendale e al lavoro. Ancora oggi questo retaggio è ben radicato in tutto il popolo del Sol Levante ma noi occidentali inquadriamo il fenomeno con una griglia valutativa distorta, quasi disfmorfica applicando una vera dislettura illusoria. In sintesi pensiamo sia un paese perfetto.
Il preambolo era necessario per spiegare la potenza destrutturante del romanzo di Yu Miri edito da 21Lettere nella traduzione di Daniela Guarino. Un romanzo capace di mostrare il lato oscuro del positivismo del miracolo economico giapponese, una storia dalla bellezza disarmante. Tokyo – Stazione Ueno è un’incantata e disincantata riscrittura della storia giapponese post-atomica, dal punto di vista degli emarginati, degli outcast e degli outisider nipponici, di quei senzatetto e senza-lavoro che vengono permanente marginalizzati dalla società. Yu Miri problematizza e demonizza con un’operazione demistificante la leggenda del Giappone risorto dall’occupazione americana, impegnato a mostrarsi al mondo con le Olimpiadi di Tokyo del 1964 e poi del 2020.
Il sense of wonder si insinua timidamente nella storia, echi invisibili infestano la stazione di Ueno a Tokyo. Seguiamo il punto di vista di un fantasma di un senzatetto deceduto in loco. L’autrice contrappone, in maniera sagace e graffiante, la vita di un lavoratore di Fukushima (città altrettanto colpit nel disastro del 2011) alla famiglia imperiale con cui esso crede di avere dei legami. Il romanzo è un’esperienza mistica, le sue pagine sono abitate dai “nessuno”, dagli invisibili abbandonati a loro stessi, da coloro che non appartengono più all’umanità, secondo il popolo giapponese. É una ricostruzione e una demolizione il romanzo di Yu Miri, abbatte la concezione stessa di Storia. La Storia non deve appartenere alle luci della nazione, deve essere restituita a coloro che non hanno identità, a gli sfollati, i poveri, gli oscuri, a gli esclusi dal grande corso degli eventi. L’autrice ci ricorda una potenziale verità assoluta, ogni uomo è tragedia.
Kazu, il nostro fantasma, è un tassello di una geografia urbana ed emotiva, oltre che uno spettro sociale. Il suo lirismo ci fa assorbire i colori, le luci, le ombre, i sapori e la vita amara della capitale giapponese perennemente ammantata da un progressismo sistemico e sempre più asettico. Le ipocrisie lo attraversano sobbalzandolo in traiettorie non euclidee e temporali, Kazu è la storia giapponese, meticolosamente rivive il passato e il futuro capendo quanto il suo paese sia condannato.
C’è poco da aggiungere. Non dobbiamo dimenticare l’esistenza e la non-vita di Kazu, dobbiamo custodire i suoi sentimenti. C’è un grido doloroso e crudele per smascherare senza vergogna tutto il marcio di un paese travestito da guida per il futuro. Yu Miri ci condanna a un’empatia totalizzante, mi sono sentito l’ultimo degli ultimi e in quel dolore ho trovato segreti che non sapevo di custodire.
A latere aggiungo di aver apprezzato molto l’edizione con note a piè di pagina per chiarire alcuni elementi della cultura giapponese. Bellissima la copertina di Jacopo Starace che ricorda i manga e gioca di contrasto con i toni meno cangianti del romanzo.
Cristiano Saccoccia
L’anno prima delle Olimpiadi di Tokyo, nella fredda mattina del 27 dicembre del trentottesimo anno dell’era
Shōwa, uscii di casa che era ancora buio, mi recai alla stazione di Kashima e presi il primo treno della linea Jōban, alle 5:33. Arrivai alla stazione di Ueno che era passato mezzogiorno. Mi vergognavo della mia faccia completamente annerita dal fumo delle locomotive a vapore che avevano attraversato innumerevoli tunnel e ricordo che, mentre camminavo lungo il binario, più volte mi specchiai nei finestrini del treno sollevando e abbassando la tesa del cappello. Mi sistemai nel dormitorio della Società di impianti sportivi Tanigawa, che si trovava all’interno dell’edificio Taishidō a Setagaya. Si trattava di un prefabbricato, e aognuno spettava una stanza grande sei tatami, mentre toilette e sala da bagno erano in comune. Alla mattina e alla sera, i colleghi che avevano la possibilità di cucinare ci preparavano riso, zuppa di miso e qualche semplice contorno. Siccome il lavoro era pesante, se non mangiavamo una doppia razione di riso il corpo non reggeva la fatica. Non esistevano contenitori di latta appositi, e se anche fossero esistiti non avrei certo avuto i soldi per comprarne uno, perciò dopo la colazione riempivo la mia ciotola di riso, ci mettevo sopra un piatto come coperchio, legavo il tutto bello stretto in un fagotto e mi dirigevo in treno al posto di lavoro. Per accompagnare il riso, siccome avevamo un’ora di pausa, andavo nella via dei negozi vicino al cantiere a comprare delle crocchette di patate o di carne. Il lavoro consisteva nella costruzione di impianti sportivi da utilizzare durante le Olimpiadi: circuiti per le competizioni di atletica leggera, campi da baseball, tennis, pallavolo, eccetera. In realtà, i lavori di costruzione li facevano con macchinari pesanti che non avevo mai visto, come bulldozer e ruspe, e noi operai venuti da fuori non li sapevamo manovrare, perciò ci spettava solo il lavoro di braccia: scavavamo il terreno con pala e piccone, e lo trasportavamo con le carriole. Molti erano originari delle zone rurali del Tōhoku. Tutti ci mettevamo a ridere dicendo che il lavoro del muratore era uguale a quello agricolo