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Robert Coover, La babysitter e altre storie

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La babysitter e altre storie

C’è chi fa letteratura e chi invece la disfa, la ridicolizza, la trasforma in satira e parodia, dissacra il sacro e il sacralizzato, in poche parole: la rende più umana. A questa tradizione appartengono per esempio il Satiricon o il Decamerone, e tra i contemporanei per certi versi Pynchon. A questa tradizione appartengono anche alcuni esempi cinematografici, come Buñuel, musicali come Captain Beefheart, o recenti esempi televisivi, da cartoni animati come i SimpsonsAmerican Dad e South Park, a serie tv che mescolano meta-narrativa a parodia come Community, a stand-up comedian che continuano rendere provocatoriamente esplicito l’implicito come Amy Schumer. L’anello che lega la tradizione ormai classica alla nuova corrente irriverentista è Robert Coover.

Nel 2018 è uscito Going for a Beer (in Italia La babysitter e altre storie, NN Editore, traduttori vari), testo che raccoglie una buona selezione dei suoi racconti, scritti e pubblicati tra l’inizio degli ani ’60 e la fine degli anni ’10, e che mostrano benissimo il percorso che Robert Coover ha fatto, partendo dai primi esperimenti di decontrazione di fiabe, miti, religioni e leggende, fino alla sua produzione di parodie (il western in Ghost Town, il noir in Noir), sequel di storie ormai metabolizzate nel dna culturale occidentale (Pinocchio in Pinocchio in Venice e Huck Finn in Huck Out West), pastiche di generi (il superbo The Public Burning), fino agli esperimenti “cinematici” di Lucky Pierre. 

La babysitter e altre storie (Going for a Beer) contiene racconti tratti dalle quattro raccolte di Coover, Pricksong & Descants (1969), In Bed One Night (1981), A Night at the Movies(1987) e A Child Again (2005), più una manciata di racconti inediti su libro, tra cui un paio di recentissima pubblicazione sul New Yorker. Inevitabilmente si perde il senso particolare che avevano quelle raccolte, ciascuna sapientemente costruita attorno a un nucleo tematico e organizzata in un percorso definito e delineato. Su Pricksongs & Descants c’è un prologo e un epilogo che racchiudono un universo multiforme costruito su parodie e riscritture di classici. Pricksong è il modo in cui gli spartiti musicali venivano scritti e stampati, descants sono i controcanti a un cantus firmus, delle variazioni che in origine non venivano scritte, e i racconti di Pricksongs & Descants sono quasi tutti variazioni, interpretazioni, a volte parodie, di vecchie forme più o meno canonizzate, qui prevalentemente fiabe (Hansel e Gretel, Cappuccetto rosso, Giacomino e il fagiolo magico e la Bella e la Bestia), ma ci sono anche delle “novelle esemplari” costruite sullo stampo di quelle di Cervantes, (e delle quali su Going for a Beer ritroviamo solo “The Brother” e “The Wayfarer”) e diversi riferimenti a fonti filosofiche e scientifiche.

Coover disfa tutto e lo ricostruisce, cercando di realizzare nuove forme da quelle vecchie, e lo fa con un perverso gusto dissacrante, a partire dal titolo che in uno dei racconti viene storpiato in death-cunt-and-prick songs.” Se da un lato si perde il filo che legava quei racconti in un discorso compatto e consistenze, dall’altro nei racconti ritagliati su Going for a Beer appare più evidente il sussulto che ha spostato quasi drasticamente l’interesse di  Coover da naturalismo obliquo (il romanzo d’esordio The Origin of the Brunists) verso territori post-moderni già abitati dagli esperimenti di Donald Barthelme e alcune cose di John Barth.

Robert Coover

Stesso discorso per A Night at the Movies, dove Coover continua col suo lavoro di distruzione e ricostruzione delle forme del senso. Se su Pricksongs & Descants lo aveva fatto col codice delle fiabe, dei miti, delle origini della forma romanzo e lo faceva esibendo appieno le sue ispirazioni (Beckett, Ionesco, Cervantes, i classici greci e latini), su A Night at the Movies lo fa col cinema, cioè con l’ultima nata delle arti creatrici di senso e significato.

Quello che i racconti di A Night at the Movies mostrano è che i linguaggi narrativi del ‘900 sono costruiti su una diversa fenomenologia, determinata dalla nascita dell’elemento audio-visivo, e quindi dinamica, mobile e più plastica di quella prevalentemente pittorica del secolo precedente: se prima l’ekphrasis (ossia il modo in cui la letteratura cerca di descrivere una forma figurativa) era legata alla pittura, quella degli scrittori del ‘900 è legata al cinema, o anche al fumetto, che a modo suo mette in scena un’azione. Quella di Coover però è l’ekphrasis di un anarchico, di un dissidente, un profanatore che costruisce qualcosa di nuovo dissacrando il vecchio pur mantenendolo come strumento formale.

Coover affronta i generi, e tramite questi, il senso comune e lo spoglia di ordine e necessità. Mostra come si possano dire e fare cose che prima era vietato dire e fare, arricchisce i generi fino a farli esplodere o a frantumarli: introduce l’entropia, ossia l’errore, il disturbo, nel mondo regolato, pettinato e logicamente rigoroso dei luoghi comuni narrativi. Così su “The Phantom of the Movie Palace” segue un proiezionista impazzito in un cinema vuoto che proietta spezzoni di film, fino a sovrapporli in nuove narrazioni: fa da introduzione a una raccolta che si legge come una specie di romanzo (esattamente la stessa funzione che “The Door. A Prologue of Sort” aveva su Pricksongs & Descants) mescolando e incrociando alcune fiabe. “Shootout at Gentry’s Junction” prende il western (con un esplicito riferimento a “Mezzogiorno di fuoco”) e ne ribalta assunti e regole. “Charlie in the House of Rue” è l’idea per il film che Charlie Chaplin non ha mai fatto, e anche qui Coover prende le regole delle comiche e le dà in pasto all’entropia che domina il mondo (entrambi racconti non inseriti su Going for a Beer).  

Su “Cartoon” un uomo che è di cartone animato guida la sua macchina di cartone animato in una città cartone animato e investe un uomo reale, e da qui inizia una curiosa e dissacrante ibridazione tra realtà e animazione: è “Chi ha incastrato Roger Rabbit” rovesciato, pochi anni prima che uscisse il film. “Top Hat” (originariamente pubblicato su Playboy) decostruisce l’avanspettacolo che è alla base dei musical e “You Must Remember This!” è una ricostruzione di una delle scene più famose di Casablanca, dove Rick e Elsa iniziano con lo scambio di battute del film ma finiscono per creare una specie di film porno, causando un cortocircuito nella narrazione (del film).

Robert Coover

Dal breve ma importantissimo In Bed One Night sono stati ripresi i racconti “in bed one night,” “the tinkerer” e “the fallguy’s faith” e “beginning” (originariamente scritta nel 1972). È forse la raccolta più incisiva di Coover, dove la sperimentazione dei racconti che lo compongono non è uno sterile eserciziario di tecniche post-moderne e soprattutto tradisce la fonte che più ha ispirato Coover: Samuel Beckett, qui spettro che aleggia tra riflessioni sul vuoto, sulla morte, sull’assurdità della vita, sull’incomunicabilità. “in bed one night” originariamente pubblicato su Playboy, è un flusso di coscienza che parla di un uomo che trova nel suo letto una piccola comunità di estranei, e Coover se ne serve per mostrare come e quanto sia assurda la vita contemporanea e di come l’uomo sia un animale capace di adattarsi a qualunque tipo di assurdità. Compresa la scrittura senza punteggiatura. “the tinkerer” si avvicina alla forma canonica: un inventore inventa la Mente, che pur non essendo la sua invenzione migliore, per qualche motivo continua a catturare la sua attenzione. Allora capisce di non aver inventato la Mente, ma l’Amore, che nel frattempo sta portando scompiglio nel mondo.

Coover riprende poi le fila del suo antico e mai sopito interesse per le fiabe, le favole, le mitologie  nelle novelle Brian Rose e Stepmother, ideali compendi della sua ultima raccolta A Child Again ossia, “di nuovo bambino.” E l’unico requisito necessario per non essere più bambini è essere cresciuti, maturati, invecchiati. I 4/5 dei racconti raccolti su “A Child Again” Coover li ha scritti dopo il 2000, cioè a quando si avvicinava ai settant’anni e molti di questi racconti contengono sporadiche ma incisive riflessioni sul non essere più bambino, o giovane: in molti racconti fa capolino la morte, il tempo che passa e ti invecchia e lentamente ti cancella. La Morte che sarà un tema ricorrente in quello che Coover scriverà nei dieci anni che seguiranno (“Hang of a Schoolmarm,” per esempio, o anche in alcuni passi intensi e accorati del suo ultimo “Huck Out West.”  In realtà qui un Coover invecchiato e matura, sembra applicare la sua stessa lezione, quella lezione che ha costruito in raccolte rivoluzionarie e sperimentali come Pricksongs & Descants e A Night at the Movies. Sembra voler dire quello che si era dimenticato di dire in altri racconti, fare meglio e con più maturità quello che aveva fatto prima, e forse a volte con troppo impeto, o riempire i buchi e i vuoti lasciati prima, come ad esempio “House Cards, racconto scritto su tredici carte da gioco di un seme, con l’inizio e il finale forzati, ottenendo così 2048 diverse variazioni.

È un po’ il gioco che aveva fatto, in altri modi, con “The Babysitter,” ma i racconti più riusciti della raccolta sono quelli che si scostano da questo motivo principale come il bellissimo “Stick Man” che riprende Baudrillard, e la migrazione dei personaggi tra mondi narrativi di Umberto Eco, qui per mettere alla gogna il senso sempre più trasformato in simulazione.

Coover non si ferma qui. Ha già detto di avere in testa un libro parodia sull’era Trump, con tanto di un Hulk ottuagenario, e un seguito dei racconti di A Night at the Movies. E chi meglio di Coover può riuscire a cogliere gli ibridi tra diverse forme comunicative che rappresentano questi anni? Tra cinema che diventa fumetto, fumetto che diventa letteratura, letteratura che si trasforma in videogioco e miti vecchi che vengono spesso reinventati, riscritti, modificati in un’incessante proliferazione di senso che la realtà usa beffardamente per nascondersi. 

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