La morte arriva attraverso un whatsapp freddo ed indiscreto.
Arriva svuotata di senso dalle parole dell’articolo che l’accompagnano.
La morte é sorda o forse noi l’abbiamo resa tale.
Quella morte osteggiata, censurata come fosse una vergogna.
Ma la morte é una sorella, un’amica che sa dire “basta” ad una periodo transitorio.
Solo in lei possiamo sperare che esista un senso e forse da lei scappiamo per la paura che un senso alla fine esista veramente.
La notizia della morte non mi ferisce; la immagino nelle braccia della pace o di quel dio a cui aveva dedicato la sua vita.
Mi ricordo quando mi aprì la porta di casa sua.
Ero un ragazzino con una immensità di desiderio che lottava per la sopravvivenza. O meglio, che lottava per difendere quel desiderio a qualunque costo e accettando qualsiasi conseguenza potesse comportare.
Lei mi aveva trovato nelle file posteriori di un coro di voci compresse e represse da troppi “devi” e modelli impersonali.
Ero arrivato lì un po per caso e, dal momento del provino, non mi aveva più staccato gli occhi di dosso. Non ho voglia di fare il modesto perché la modestia é una forma di giustificazione. Ero bravo, molto e non solo.
Lei aveva capito due cose che poi mi disse solo nel nostro ultimo incontro: che avevo una gran voce e soprattutto che avevo bisogno di esprimermi attraverso di essa.
Così mi guardava e mi osservava.
Lei sapeva cosa si diceva di me in quell’ambiente, conosceva perfettamente il giudizio che avevano su di me e soprattutto il motivo per cui non solo non amavano che cantassi, ma che me lo negavano giustificandosi con ragioni che preferisco non dire e che mi ricordano quanto piccolo e misero può essere un essere umano nei confronti di un altro.
Lei sapeva altrettanto bene che in quel mondo mi ci ero ritrovato per errore e che ben presto sarei fuggito a gambe levate.
Lei sapeva tutto e mi guardava.
Ricordo i suoi occhi inchiodati addosso senza dire nulla.
Io ricambiavo lo sguardo ed in quello sguardo mi sentivo sicuro, un’àncora che non mi lasciava andare alla deriva.
Un giorno mi passò un pezzo di carta con il suo numero di telefono e mi disse “Vieni, farò di te il mio solista”.
Ricordo che entrando in salone la vidi al pianoforte, una mezza coda nera che occupava il centro della stanza. Si alzò sorridendomi felice e mi abbracciò. Poi mi disse “Vieni” e si risedette al pianoforte. Quindi iniziò a farmi scaldar la voce e poi cantare note, solo note. Andavo da lei ogni mercoledì nel primo pomeriggio e cantavo solo note.
Non parlavamo quasi a meno che fosse relativo alla voce, agli esercizi o alla tecnica.
Per chi fa arte parlare é sopravvalutato.
Il tempo si fa corto e non riesco a quantificarlo, ma un giorno mi disse di prendere il vinile sul tavolo e metterlo sul giradischi.
Ricordo i tamburi, un coro fluttuante e poi una voce lirica far da solista.
Finito il pezzo mi chiese se mi piacesse.
Le dissi che quel brano mi aveva sorpreso perché lontano dalla musica classica ed operistica che ero abituato ad ascoltare, che mi sembrava molto potente e che aveva qualcosa di selvaggio e contemporaneamente nostalgico che mi sconvolgeva.
Era il Kyrie della Misa Criolla di Aires Ramirez cantata da José Carreras.
Mi disse che voleva che lo cantassi per lei. “Ok” risposi. Lei mi guardò e disse “Vedo che non hai capito, voglio che canti questo brano come solista”.
Lo cantai solo una volta con il coro finalmente alle spalle e davanti a me non so più quante persone e fu stupendo.
Lei quel giorno mi abbracciò forte e mi disse “Lo sapevo, lo sapevo!”. Io rimasi in silenzio preso alla sprovvista ed un po’ intimidito dall’entusiasmo e ad oggi non so a cosa si stesse riferendo.
Fui suo solista altre volte in alcuni concerti con brani diversi ma da lì a poco, come lei aveva predetto, me ne sarei andato.
Il giorno che le dissi che fra quella gente non potevo rimanere, lei abbasso lo sguardo e mi disse che lo sapeva. E poi: “Ricordati, che qui ci sarà sempre una tua amica ad aspettarti”.
Me ne andai lasciando tutto indietro e in quel tutto c’era anche lei.
Ogni tanto sentivo notizie di cose che aveva fatto o detto, di concerti nei quali non mi aveva invitato, ma come biasimarla! Una parte di me avrebbe voluto essere chiamata, nonostante quel mondo mi respingesse come l’acqua respinge l’olio. Lei sapeva che avrei accettato ma solo per noi due e per nessun’altro e questo tradiva quello in cui credeva.
Ad ogni modo, prima che venissimo rinchiusi in casa, mi fece arrivare un messaggio da un amico. Voleva rivedermi.
Presi appuntamento ed andai.
Aveva cambiato casa ed entrato mi colpí vederla seduta sul divano affaticata.
La sentii stanca, sorridente ma sofferente. Le chiesi che fine avesse fatto il pianoforte. Lei mi disse che aveva dovuto lasciarlo perché in questa casa non c’era spazio a sufficienza.
Mi chiesi come lei potesse essere lei senza quel pianoforte.
Sentii che qualcosa ero morto per sempre. Qualcosa era finito e non sarebbe mai più stato.
Parlammo tanto, voleva sapere tutto di me.
Ma io avrei voluto cantare. Io avrei voluto urlare quella tragedia, avrei voluto cantarle il mio dolore e la mia gioia.
Avrei voluto buttargli giù i muri di casa per ridarle il suo pianoforte.
Invece le feci sentire le canzoni che stavo scrivendo e che ora son diventate parte di un album.
Me ne andai da quella casa sua promettendogli che ci saremmo sentiti. L’ho chiamata qualche volta e le ho inviato molti messaggi ai quali non ho mai ricevuto risposta, l’ultimo del cinque dicembre.
Io non so dire se eravamo amici o cosa, quello che so é che avrei cantato per lei tutte le volte che me l’avesse chiesto.
Perché lei quando mi puntava gli occhi in faccia mentre cantavo, in qualche modo entrava in contatto con qualcosa che avevo dentro come nessun altro ha mai fatto; perché quando mi fissava così non potevo far altro che dimenticarmi tutto, tristezza, rancore ed insofferenza ed essere migliore.