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Michele Iodice. Aphrodisia al Mann

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Photo credits Jordi Mestre i Vergés

Ha inseguito la notte. Attraversato mari e continenti cavalcando i venti. Ha disubbidito agli ordini e ha alzato le tende per vedere ancora quella terra, per sentire ancora quel tremore.

La prima volta fu un pomeriggio di inizio estate a Napoli, nel rione Sanità. Era piccolo, stava da solo a casa e giocava. Gli piaceva rotolarsi sul tessuto di seta che copriva il letto dei suoi genitori. Estendeva le braccia sopra la testa e attraversava quel deserto fresco e carezzevole a pelle nuda. Perché lo fai? chiedeva talvolta sua madre, rassettando. Ma lui nulla sapeva dire di quell’allegria elettrica che lo faceva rotolare sulla seta. La stessa che lo assaliva quando con le gambe a penzoloni sulla sedia, complice sempre la noia estiva, strofinava la pelle delle ciliegie sulla propria pelle e sorrideva. Amava camminare contro vento e immergersi nel mare, sentire tutto il suo corpo vivo, avvolto senza costrizione da un elemento.

Uno di quei pomeriggi, strofinando una ciliegia sul braccio, di colpo sentì che qualcosa cambiava nel tempo. Forse anche nello spazio. Era sempre lì ed era anche altrove, era bambino ma anche ragazzo e uomo. Saltò giù dalla sedia e iniziò a camminare. Si ritrovò in un vicolo, che lo partorì a una piazza gremita di gente attorno a un burattinaio che si prendeva gli applausi. Dietro le quinte un ragazzo smontava il teatrino e con un martello raddrizzava i chiodi per la prossima funzione. I loro sguardi si trovarono un attimo e il ragazzo gli fece l’occhiolino.

Camminò ancora in mezzo alla gente che gli rapiva i sensi. Udiva pezzi dei loro discorsi mentre lo sguardo saltava da una pettinatura a forma di nido a un seno grande come un cuscino, al ritmo delle anche di uomo a passo svelto, un vecchio libro stretto al petto, i denti sporgenti che entrano in una mela, le forme delle dita di un piede dentro un sandalo, un profumo di incenso, di sudore, di pizza, di mare vicino, e ancora voci tra i clacson dei motorini, quando all’improvviso una folata di vento. Il cielo si fecce nero, tutto nero, e un tuono esplose in aria come un grugnito furioso e divino. Camminò ancora più veloce, correva quasi quando un tuono si scagliò insieme a una scossa di terremoto che lo portò a buttarsi dentro la fessura di un grande portone mezzo aperto.

Era già notte e là dentro era buio. Era un uomo, sentiva il rumore del cuore battere contro il petto. Mentre gli occhi si abituavano all’oscurità e il suo cuore iniziava a rallentare, intravide delle ombre di corpi e gli sembrò di sentire delle voci, risate in lontananza, gemiti forse.

Era entrato nel Museo e fu testimone scelto dei segreti delle dee e degli Dei che impassibili di giorno prendono vita nella notte.

Prima che albeggiasse tornò a casa e nel suo corpo bambino. Gli anni passarono, e diventò il ragazzo che raddrizzava i chiodi, e le sue mani poi non si fermarono mai, avido sempre di questo teatro che formiamo stando insieme, dei suoi costumi, le sue scenografie. Una grotta nel ventre della città, un Museo nella notte e una casa circolare sono la sua dimora.

Inseguì il giorno e la notte. Attraversò mari e continenti cavalcando i venti e un giorno si decise a raccontare. Raccontare la scoperta di quel giorno, il suo segreto. Disegnò e scolpì i fauni di questa terra che a tutti appartiene e che non tutti visitano, il loro libero e ludico erotismo. Compose la biblioteca dell’anima e gli elementi che la nutrono: bianchi come fossero fatti di pura luce nella notte della libreria nera. Raffigurò i momenti di attesa che gonfiano il desiderio, i frammenti che portano la fantasia a creare tutto il resto.

Si decise a raccontare Aphrodisia. Antico e sempre nuovo e sterminato territorio soggetto a forti tempeste e terremoti. Terra di scherzi e doppi sensi, madre di tutto ciò che nasce dal nostro ventre e dalle nostre mani umane. Territorio minato da profonde grotte dove la luce tra le sue stalagmite non è entrata mai. Accarezzato da valli soleggiati dove si aprono i fiori più rari. Cime tempestose che fanno perdere la ragione. Crepe, fossi di velluto. Fa sempre tristezza partire ma c’è sempre modo di trovare la via del ritorno.

Aphrodisia mistero che corteggia la bellezza coprendola con un velo, un drappo che si deforma sul corpo appassionato. Turbamento che annebbia la mente per puntare tutta la luce su un desiderio.

Che al buio nella notte dei musei, quando le statute restano da sole, soffi sempre su di loro il suo vento, il suo tremore, e scaldi e ravvivi la loro, che è anche la nostra, pelle di marmo e di bronzo.

Mercedes Viola per la mostra Aphrodisia di Michele Iodice al MANN, a cura di Kathryn Weir – Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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