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Domenico Paris anteprima. Il massimo della passione

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Torna in libreria il lavoro dello scrittore marsicano Domenico Paris con Il massimo della passione, raccolta di racconti che va a celebrare e raccontare alcuni dei più grandi esponenti della nobile arte del pugilato.

Dieci racconti per dieci pesi massimi, ibridi biografici che si fondono con classe con la pura fiction, per offrire al lettore uno sperimentalismo narrativo di rara sensibilità.

Passando da Mike Tyson a Jack Jonson fino a Rocky Marciano senza dimenticare Muhammad Alì, l’autore Paris sviscera l’intimità di mostri sacri al fine di consegnarcene ritratti che mettono in risalto le fragilità di queste leggende del pugno.

Edito da Absolutely Free Libri, Il massimo della passione è una occasione unica per intrecciare l’agonismo sportivo alla delicatezza di uno storytelling interiore.

Cristiano Saccoccia

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Mentre Laila finisce la sua colazione e va a infilarsi sotto la doccia, a qualche centinaio di chilometri di distanza Muhammad Ali viene accompagnato al letto da Lonnie, la sua quarta e ultima moglie. Si conoscono da quando lei era solo la figlia seienne dei suoi vicini di Louisville e lui già il campione olimpico dei mediomassimi a Roma. Sono sposati da una quindicina d’anni, poco dopo che l’Alzheimer ha cominciato a prendere possesso del corpo del Più Grande. Nonostante le difficoltà causate dal male nella loro vita di tutti i giorni, si amano. Meglio, si capiscono. Certe volte senza neanche bisogno di parlare. Anche perché, con il passare degli anni, per lui parlare diventa sempre più faticoso e la pur breve telefonata che ha appena avuto con sua figlia lo ha gettato in una prostrazione che soltanto l’amore per la moglie e il rispetto per la vita gli consentono di provare a mascherare. Ma Lonnie sa, lo conosce da quando era ancora un meraviglioso ragazzo che sembrava scolpito da Michelangelo. Non c’è bisogno di molte parole. Con delicatezza lo aiuta a deporsi sul letto dell’albergo in cui alloggiano e, dopo averlo aiutato a trovare una posizione comoda, non fa altro che sussurrargli un bacio tenerissimo sulla punta del naso, spegnere la luce e ritirarsi in un’altra stanza della suite. Il buio… C’è una condizione più impropria per chi è abituato a portare la luce dovunque si trovi? Ali pensa a questo mentre con gli occhi sbarrati cerca di indovinare qualche riflesso di colore sul nero di pece del soffitto. Se c’è una cosa della sua malattia che davvero lo butta giù è proprio questo senso di tenebra nel quale sembra gettarlo ogni tanto, nel corso delle sue giornate. Quei blackout della mente che sembrano cancellare, a volte solo per pochi istanti, altri per lunghe ore, la coscienza oltre che la memoria di sé. Da molto tempo ha capito che dalla vita bisogna accettare ogni responso, è Dio che disegna quelle montagne russe oscillanti tra gioia e tristezza, tra grandezza e miseria che spettano in sorte a ogni uomo. E con lui, riconosce, è stato particolarmente generoso. Ma anche parecchio esigente. Non gli ha chiesto soltanto di essere un grande pugile, un atleta fuori dalla norma, ma anche di trasformare questo suo dono in uno strumento per, appunto, illuminare le coscienze. Si è sempre sentito come una specie di Prometeo obbediente, come un tedoforo prescelto per provare a mostrare con più chiarezza alla sua gente, no, a tutta la gente, a prescindere dal colore della pelle, un messaggio che non viene da questa Terra: e, infatti, quando cinque anni prima gli hanno chiesto di essere l’ultimo portatore della fiaccola olimpica ad Atlanta, non ha avuto vergogna (come anche prima, d’altronde) di mostrarsi nelle sue condizioni davanti a miliardi di persone. Ed è stato molto, molto felice. Ha vissuto questa ennesima esperienza del suo percorso di uomo come l’incarnazione più definitiva e indimenticabile della metafora che ha sempre rappresentato. I suoi colpi sul ring o dietro un microfono sono stati lampi di luce, di quella luce superiore. Perfino gli inciampi con Ken Norton o con Leon Spinks lo sono stati. O gli atterramenti inflittigli da Cooper e da Joe Frazier. O ancora le severe lezioni subite ne gli ultimi due incontri contro Holmes e Berbick. Un perenne, sfaccettato bagliore infusogli dall’alto. Al quale il suo cuore, oltre che la sua lingua e il suo pugilato, hanno fatto da prisma per regalare conforto alle persone, per lasciargli finalmente vedere che un’altra strada per camminare con fiducia in questo mondo esiste ed è lastricata di meravigliose sorprese. Ecco, per questo non gli piace più stare al buio o perché, qualche volta, chiede a Lonnie di accendere l’abatjour sul comodino. Se potesse, vivrebbe tutti giorni che Allah gli concederà di passare ancora su questa terra solo e soltanto in un’alba perenne, sotto la benedizione di un cielo indefettibilmente terso, e non in senso meteorologico. Ma sa anche che il buio è un’occasione di conoscenza che non può e non deve mancare nell’esistenza di qualunque abitante di questo pianeta, perché soltanto attraverso di esso nasce la giusta predisposizione al vero conoscere, al senso del nostro viaggio. Allora accetta di chiudere gli occhi e prega in un silenzio che più religioso e partecipato non potrebbe essere. Proprio come sta facendo adesso, mentre ringrazia chi gli ha donato la luce con un’umiltà che nessuno si sognerebbe di attribuirgli. Di attribuire al Più Grande. Ringrazia per averlo trasformato da Cassius Clay in Muhammad Ali.

Per tutto quello che ha vinto e per ogni volta che ha perso. Ma anche per la malattia, senza la quale, probabilmente alla grandezza della sua luce sarebbe mancato qualche fotone di vera conoscenza. E, mentre ringrazia anche per il successo che Dio ha regalato a sua figlia contro quella di Joe, viene rapito da un sonno che è una promessa di un nuovo lampo da regalare agli altri e a se stesso. Più tardi, domani e per chissà quanti altri giorni.

Ancora.

Brillare.

Fino alla fine.

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