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Noi siamo i lupopesci. Intervista ad Alfonso Lentini

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Alfonso Lentini, Noi siamo i lupopesci, collana Glossa, Pièdimosca edizioni, 2024.

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Noi siamo i lupopesci è una raccolta di prose sperimentali brevi legate dal filo rosso, ma anche fluorescente, dell’imprevedibilità, per coloro «che non sono interessati al “come va a finire”, né ai racconti “tratti da una storia vera”». La scrittura di Alfonso Lentini è trasversale e riguarda anche opere verbovisive, in cui lo scrivere diventa un deragliamento, una necessità biologica, una «pulsazione biologica di cui, come il respiro, non posso a fare a meno» e in questo ricorda il battito materno del poeta Francesco Saverio Dòdaro. La scrittura di Alfonso Lentini è attraversata da spirali, da salite e da discese sovvertite, da continui movimenti sussultori, inversioni surreali stralunate che partono comunque da un sostrato fisico e concreto pur divergendo in rotte ironiche e a tratti comiche. Lentini compone un mosaico espressivo sfoderando tutto il potenziale creativo che può nascere da periodi di profonda incertezza e instabilità, come quello del lockdown (periodo in cui nasce la sezione Scale.) In questo senso il libro di Alfonso Lentini è un oggetto geometrico impossibile come potrebbe esserlo un disegno di Escher. La libertà creativa e creatrice della scrittura di Alfonso Lentini non teme alcun tipo di censura né esterna né interna, nonostante possa «esistere a nostra insaputa una piovra invisibile che controlla amorevolmente le nostre menti e ci detta, parola per parola, tutto quello che dobbiamo pensare (e di conseguenza forse anche scrivere): una censura preventiva che agisce indistintamente su tutti» e da questo punto di vista la scrittura diventa un gesto non legato a un prodotto o una aspettativa commerciale, la scrittura si fa gesto puro, creativo e liberatorio. Soprattutto la scrittura diventa un gesto politico contro ogni omologazione, atto a far esplodere le gabbie prestabilite che il sistema impone, «insomma, scrivere per resistere», lasciando che il desiderio si esprima e ci esprima. La scrittura desiderante e sperimentale di Alfonso Lentini ci fa sentire l’importanza di rischiare, per mantenerci in vita, e di osare oltre il confine della chiacchiera predeterminata e schiavizzante…

Gianluca Garrapa

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Genesi e desiderio del tuo libro.

Da qualche tempo la mia ricerca trova il suo esito più “compiuto” nell’incompiutezza della scrittura frammentaria e microforme. “Noi siamo i lupopesci”, come anche qualche mio precedente volumetto, rappresenta uno sbocco naturale di questa pratica. Per la pubblicazione del libro, poi, decisivo è stato l’incontro con Carlo Sperduti (curatore della collana “glossa” per le edizioni pièdimosca) che ho intercettato collaborando con il “multiperso”, blog ormai diventato una sorta di laboratorio dal quale hanno origine diversi suoi progetti editoriali. Carlo è molto attento alla scrittura non convenzionale ed ha subito apprezzato il mio lavoro incoraggiandomi a pubblicare.
E visto che parli anche di “desiderio”, ti prendo alla lettera e ti rispondo così: il desiderio di questo libro è di finire nelle mani giuste, cioè in quelle di lettori curiosi, che non si accontentano di una scrittura piatta e prevedibile, che non sono interessati al “come va a finire”, né ai racconti “tratti da una storia vera”. E devo dire che, stando alle significative recensioni che sono arrivate finora (cito fra tutte quella di Francesco Muzzioli su “Critica Integrale”) e soprattutto agli apprezzamenti spontanei che mi sono arrivati da tanti semplici lettori, forse siamo sulla buona strada.

Quando scrivi, godi?

No. Per me scrivere è semmai un bisogno, un bisogno che ha a che fare con la ricerca di una strada diversa per comunicare prospettive diverse. Scrivere, o anche comporre lavori di arte visiva, per me è un gioco pericoloso, un deragliamento pieno di rischi, ma è soprattutto una pulsazione biologica di cui, come il respiro, non posso a fare a meno.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Importante in che senso? Se intendi riferirti al valore che gli attribuisco, direi forse “Scale”, la prima delle quattro sezioni in cui si divide il libro. “Scale” è una sequenza di microracconti dove si parla di una grande famiglia, quasi una tribù, i cui componenti sono tutti ossessionati dall’idea del salire, tendere verso l’alto. Ecco un esempio:


MIO ZIO


Eh, mio zio è uno scaleno. Cioè, così lo chiamano gli amici del bar. Cioè, come dire, ha a che fare con scale e cose così, questo è certo. Però. Però non saprei dire bene. Lui è scaleno davvero. Non so come spiegare questa cosa. Lui, insomma, non ha proporzioni. È lui stesso una specie di scala, ma sconnessa, scombussolata nella sua struttura più intima. Ha scalini irregolari, che mal si reggono su assi contorte come rami di olivo. Insomma mio zio è scaleno, e in famiglia lo accettiamo senza far troppe storie, scaleno com’è, anche quando tenta di salire su se stesso e, non riuscendoci, piange e strepita alla disperata.

Paradossalmente, questa sezione così volatile e stralunata nasce dalla mia esperienza concreta in quanto, vivendo a Belluno, sono circondato da un anfiteatro di vette altissime (le sontuose Dolomiti) che fanno sentire il cielo a portata di mano e sembrano invitare all’ascesa. Da questa situazione molto concreta e reale ho ricavano un groviglio narrativo che oscilla dal nonsense alla costruzione di allegorie “aperte”. Conciliare istanze così diverse assecondando le più azzardate derive concettuali ma rimanendo entro un registro ironico e giocoso, ha richiesto un difficile impegno compositivo, ma l’esito finale mi sembra ben riuscito in quanto a equilibrio e impatto espressivo. E penso che questa prima parte possa fare da ottimo traino verso le successive sezioni: “Nani di mente”, “Del dormire” e “Viaggio sulla Luna”. Oltretutto, quando ho iniziato a scrivere “Scale”, nel 2021, erano i giorni del lockdown ed eravamo immersi in un clima di disorientamento e generale incertezza. Lavorare a questi microtesti è stato liberatorio e gratificante.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Una giraffa zebrata. Un triangolo di mille lati. Una discarica piena di specchi rotti.


Che rapporto hai con la censura?

Se per censura intendi un divieto esplicito, una costrizione proveniente da una qualche forma di potere esterno, beh – data l’assoluta irrilevanza e clandestinità del mio lavoro – non credo proprio che un qualsiasi “potere” possa avere il minimo interesse a limitare la mia libertà espressiva. Tuttavia nel post-mondo in cui viviamo, sempre più governato da etero-intelligenze, le connessioni sono così complesse e sottocutanee che non si può mai dire… Ad esempio, potrebbe esistere a nostra insaputa una piovra invisibile che controlla amorevolmente le nostre menti e ci detta, parola per parola, tutto quello che dobbiamo pensare (e di conseguenza forse anche scrivere): una censura preventiva che agisce indistintamente su tutti.

Vi sarebbe poi un’altra forma di censura, quella “interna”, che potrebbe arrivarmi dal freudiano super-io sempre pronto a far la guardia alle pulsioni inconsce. Ma di questo dovresti parlare col mio (peraltro inesistente) psicanalista.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Né una cosa né l’altra. Per me scrivere (e più in generale praticare forme di espressività irregolare) è un bisogno, una forma disperata di resistenza all’omologazione. Un modo di assecondare il respiro. Ma anche un tentativo di fuga, viste le numerose gabbie che vedo girare minacciosamente intorno. Se non ti resta niente da dire, scrivi”, si legge a un certo punto nel mio libro. È una frase provocatoria, che però non va intesa come un invito al disimpegno, ma come una spinta a considerare la forza della scrittura in sé, che può essere anche un gesto indipendente dai contenuti. Usando il linguaggio come azione che getta scompiglio nelle tradizionali modalità comunicative per mostrarne le ambiguità, si può provare a disegnare un orizzonte in cui, se non possibile, sia almeno desiderabile una prospettiva diversa che metta in dubbio la rappresentazione convenzionale e rassicurante delle cose. Insomma, scrivere per resistere. Non so se questo sia un modo di andare contro lo status quo. Ma a pensarci bene, forse sì.

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