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Charles Baxter anteprima. Il collettivo del sole

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È complicato, essere americani, avere i soldi e la coscienza sporca allo stesso tempo. Forse, dopotutto, non è l’argomento ideale per una poesia.”Louis Simpson, On the Lawn at the Villa –

Arriva da Mattioli 1885 questo Il collettivo del sole, romanzo di Charles Baxter nella traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi. È la storia di Tim Brettigan, un giovane attore che si è perso nel grande vuoto americano scandito dagli immensi centri commerciali e illuminato da grandi ossessioni. La madre lo cerca ovunque, e nel suo girovagare per la città scopre una strana comunità al cui capo c’è un misterioso leader destinato a cambiare la sua vita e quella dei suoi familiari. La trama ordita da Baxter porta le vite dei personaggi a intrecciarsi progressivamente, compresa quella di Christina, prigioniera delle sua dipendenza dalle droghe, ma è la stessa Minneapolis che prende voce dando voce ai racconti di chi la abita. Il collettivo del sole si aggiunge agli altri titoli pubblicati precedentemente da Mattioli 1885: Credenti e Vorrei che tu facessi una cosa per me.

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Subito dopo essere salito sulla Blue Line alla stazione centrale della metropolitana leggera di Minneapolis, tenendo gli occhi aperti per cercare il figlio, che era volontariamente scomparso e viveva per strada, Brettigan controllò se c’erano posti liberi e ne vide due adiacenti in fondo al vagone, quindi si diresse da quella parte mentre le porte davano il segnale di chiusura. Scelse il sedile che dava sul corridoio, poi si tolse il cappellino da baseball dei Minnesota Twins e lo posò su quello accanto in modo che nessuno potesse sedersi. La guaina traslucida della pubblicità appiccicata all’esterno del vagone filtrava la luce del sole e gli scoloriva le mani rendendole livide come se avesse fatto a pugni.

Dopo di lui salì una giovane coppia che si sistemò sui sedili di fianco al suo.

Brettigan era nell’età della pensione e ogni volta che si trovava in pubblico assumeva un’espressione di studiata neutralità. Aveva l’aria di uno che era in possesso di importanti informazioni segrete e doveva rendersi invisibile, evitare di esporsi. All’anulare portava una fede nuziale d’oro troppo larga che aveva ispessito con del nastro adesivo per fermarla. Nonostante l’età aveva ancora una bella testa di capelli brizzolati, sopracciglia assai folte e occhi azzurri penetranti. Rughe profonde gli segnavano il viso. In pantaloni color kaki e camicia sportiva di cotone aveva un aspetto casual, ma stava seduto dritto come un bambino al quale avessero raccomandato di stare composto, e guardava fuori dal finestrino sporco con la consapevolezza inquieta di chi ha poche illusioni a confortarlo.

La settimana prima, su quel treno di pendolari era successa una cosa. Una donna con un bimbo sul passeggino aveva puntato decisa verso il sedile davanti al suo. Brettigan era seduto accanto al finestrino, abbastanza vicino da sentirla ansimare. Ogni tanto la donna gemeva piano e ogni pochi secondi annuiva e diceva “Ah-ha” come se stesse parlando con un compagno invisibile. Quando un anziano le era passato di fianco e si era chinato ad accarezzare sulla testa il piccolo nel passeggino, la donna si era messa a urlare: “Non toccare il mio bambino!” Aveva puntato il dito contro l’anziano passeggero e lui, spaventato, era sceso di corsa alla fermata successiva. Dopodiché la donna aveva lanciato un’occhiataccia a Brettigan, che era ancora seduto dietro di lei. Ritrovando il proprio contegno, lui aveva fatto finta di guardare il panorama fuori dal finestrino. Non importava dove stesse guardando. “Nessuno deve toccare il mio bambino!” aveva gridato improvvisamente la donna, rivolta a Brettigan. Puzzava di vino. Probabilmente anche suo figlio puzzava di vino. L’intero vagone puzzava di vino, birra e Red Bull.

Quella mattina, però, il treno sembrava essere stato pulito col vapore e i soliti tizi dall’aria professional-manageriale – in completo, accessoriati e iPhonizzati – erano seduti intorno a lui a scrivere messaggini, a parlare nei loro Bluetooth o a leggere il Wall Street Journal. Sul treno quel giorno c’erano poche Vittime del Capitalismo. La gente di solito le definiva senzatetto, vagabondi o pazzi usciti dai manicomi – a un amico di Brettigan piaceva chiamarli ‘feccia’ – ma per lui erano semplicemente le V del C, quell’ampio segmento dell’economia che non aveva mai nemmeno messo piede sulla scala del successo e che si sdraiava per terra ovunque potesse farlo senza avere fastidi. In piena estate le trovavi sul treno che sferragliava verso Utopia Mall, il capolinea. Non scendevano lì, ma restavano esattamente dov’erano, accasciate, mezze addormentate e quindi mezze all’erta, finché il treno non ripartiva e tornava nel centro di Minneapolis. Non facevano acquisti, consumavano soltanto aria e avanzi di cibo. Persino gli abiti laceri che indossavano parevano presi in prestito da qualche parte. I treni andavano avanti e indietro, trasportando il loro sonnolento carico umano. Ogni volta che Brettigan scambiava un’occhiata con una di quelle persone, cercava di assumere un’espressione compassionevole e gentile. Loro ricambiavano il suo sguardo con indifferenza abbrutita oppure odio.

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