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ESTRATTO, Silvia Sereni, Un mondo migliore. Ritratti

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E’ un libro dalla rara intensità Un mondo migliore. Ritratti, il libro di Silvia Sereni che esce oggi in libreria per Bompiani. Un romanzo in cui vengono tracciati i ricordi personalissimi di un’infanzia fuori dal comune, caratterizzata da ritratti di letterati straordinari che hanno segnato il nostro secondo Novecento. Da Lucentini a Raboni, passando per l’inseparabile trio di Pippi, Vito e Donatella, redattori milanesi, Silvia Sereni, figlia di Vittorio, delinea i ritratti di questi personaggi che vivono nei suoi ricordi, spogli della severità della città e catapultati in un locus amoenus, Bocca di Magra, sospeso tra fiume e mare, collina e lingue di sabbia. La voce narrante non può che essere condizionata da un profondo affetto verso le memorie del passato, che risaltano le caratteristiche eccezionali dei personaggi, consegnandoceli in un crescendo emotivo, che rende impossibile per il lettore non provarne un’enorme nostalgia.
Ne pubblichiamo un estratto in anteprima: il ritratto di “Fernando Bandini”.
 
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Con i suoi gomiti aguzzi, le gambe magre, la corporatura esile, Fernando Bandini meritava l’appellativo di “Ossi di seppia” che un bello spirito dalle parti di Bocca di Magra, evidente­mente non digiuno di cultura letteraria, gli aveva affibbiato. A Bocca Bandini arrivava puntuale ogni anno all’inizio dell’estate con la moglie Lui­sa, l’anziana mamma, a cui era legatissimo, e, per un certo periodo (mi dice mia sorella, anche se io non l’ho mai visto), un merlo indiano. Come mio padre, si affezionava ai luoghi, a cominciare dalla sua Vicenza, soggetto di molta della sua poesia. Il suo arrivo a casa nostra, anche occasionale, durante il giorno, era sempre una gradita sor­presa, perché era una delle persone più amabili che abbia mai conosciuto. Di lui mi piaceva la  calata veneta, musicale, che faceva immaginare di trovarsi di colpo proiettati in un campiello veneziano, o meglio all’ombra di qualche loggiato palladiano. E poi era un conversatore formidabi­le, distillatore di arguta ironia. Purtroppo non so ripetere le sue battute, troppo fulminee per essere memorizzate e trascritte come si deve. Anche per il fatto che non arrivavano da uno che si pren­deva il centro della scena, tutt’altro. Non era un intrattenitore, Bandini, era un osservatore che, tra una boccata e l’altra dell’inseparabile pipa, sapeva come comunicare agli altri con efficacia le sue intuizioni. Un solo esempio, riportato ancora da mia sorella. A qualcuno che gli aveva chiesto se una certa persona era un attore, se, cioè, reci­tava, Bandini aveva risposto secco: “Sempre.” Intendendo, ovviamente, riferirsi non solo alle apparizioni professionali di quel tale sulla scena, ma a ogni situazione di vita quotidiana.  Poeta in italiano, in dialetto e perfino in latino (ogni tanto arrivava in casa qualche sua pubblica­zione di preziosa grafica nella lingua di Cicerone, e ogni volta, convenzionalmente abituata a pensa­re alle lingue morte come morte, me ne stupivo), oltre che studioso di letteratura, in particolare di  Leopardi, e di molto altro, Bandini mi piaceva anche perché, cosa per altro non insolita in quei tempi, si interessava di politica e in politica per un periodo aveva anche ricoperto qualche incarico, naturalmente nella sinistra. Si occupava, come aveva scritto, di versi, di letteratura, “di parole e di fole”, sperando “che una grazia celeste mi rimanga impigliata tra le dita”, ma contempora­neamente era animato dal desiderio di cambiare le cose, in senso civile e collettivo. (…) L’ultima volta che lo vidi fu all’Università Statale di Milano, in occasione del conferimento alla sua persona del Premio Librex Montale. Non poteva camminare, ed era stato un gruppo di amici a scortarlo fin lì da Vicenza, altro segno del fatto che era amato da molti. Frequento ancora la piccola casa di Bocca di Magra con vista sul fiume che prendeva in affitto e che ora appartiene a mia sorella, ed è questo un senso di continuità, di passaggio del testimone che fa piacere, pen­sando a lui in quanto poeta volto al passato non per nostalgia ma come conservatore di memoria da tramandare di generazione in generazione.
 

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