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Finché dura la colpa, romanzo d’esordio di Crocifisso Dentello

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CoverDentelloDefUn inno alla letteratura e alla cultura del dissenso. Sembra una vera e propria dichiarazione d’amore quella di Domenico, protagonista del romanzo d’esordio di Crocifisso Dentello, Finché dura la colpa (Gaffi, pp. 256, euro 16,90), in uscita il prossimo 26 novembre.

Domenico Laurana ha vent’anni, non studia e non lavora. Non gli interessano le ragazze, né i motori, le discoteche o i campionati di serie A. Possiede una sola passione: i libri. La sua vita è tutta lì e la descrive nelle prime pagine con tutto il tormento e la lucidità di cui è capace (“La mia vita è un lungo martirio di cellulosa: le pagine dei romanzi letti, i ritagli di giornale, i fogli riempiti con la mia calligrafia spigolosa. Una metastasi di caratteri neri in corpo 11 che mi sono rifluiti come macchie scure sotto la pelle, come globuli infetti nelle vene, come sacche di liquami oleosi negli organi. La mia vita è proprio fragile e precaria come l’altare di carta cui mi sono immolato”).

Le vicende raccontate da Domenico si svolgono tra il 1984 e il 1998, in Brianza. Una famiglia siciliana emigrata al nord: padre muratore, madre casalinga, due bambini da crescere. Due fratelli considerati alieni dai propri genitori: Vincenzo sempre dietro al suo amico immaginario, Matito, e Domenico assorto nei suoi libri, tanto da non staccarsene quasi mai. Entrambi inghiottiti dalle loro voragini interiori. Un padre autoritario che impartisce le regole in famiglia a suon di ceffoni e intimidazioni. La madre, una donna stanca “murata viva tra il bagno e la cucina, la sua è una forma di resistenza che ricorda un vegetale di frontiera, quelli che crepano il cemento e crescono a dispetto persino di se stessi”. Sarà la scomparsa di Vincenzo a segnare profondamente la vita di Domenico, così come l’imperativo del padre di andare a lavorare in fabbrica («Domattina cominci alla Malinverni, quella dopo il passaggio a livello. Devi ringraziare Bollati. È riuscito a mettere una buona parola per te al titolare. […] Dovrai smistare il materiale con un muletto. Ti insegnano loro»). L’incontro con un uomo, Agosto, lo condurrà in ben altre attività fino a trascinarlo in uno sparo omicida.

Il titolo originario del romanzo era, non a caso, “Dio benedica gli assassini” ma leggere nella stessa pagina Crocifisso, il nome dell’autore, e Dio poteva forse risultare canzonatorio, inducendo il potenziale lettore a un risolino che l’editore Gaffi ha voluto probabilmente evitare, sostituendo il titolo con Finché dura la colpa. Titolo e trama a parte, l’aspetto più interessante del romanzo di Dentello – classe ‘78, nato in Brianza, figlio di genitori siciliani -è la scrittura. Una lingua che incanta per la sua bellezza e per la gamma semantica che l’autore non si stanca mai di esplorare. Uno stile narrativo elegante unito a un lessico ricercato. Non capita spesso di leggere nei romanzi contemporanei, tanto più se di esordienti, termini come nitore, miasmi, levità, malia, baluginio, protervia, intabarrato, fellone, canicola, sciamare, rovello, teppa, pletora, drappello, detonare, rabbonire, abiezione, scalpiccio, ramingo, arrochita. Una ricercatezza che si mitiga poi nella seconda parte del romanzo, a favore del fluire della vicenda narrata.

Per oltre un centinaio di pagine, l’autore si abbandona ai ricordi del protagonista e si dedica alla scrittura corteggiandola senza tempo, affinandola e assaporando quel “piacere del testo” (alla Roland Barthes) che il lettore coglie in tutta la sua essenza. Nella seconda metà, si avverte invece il diletto dell’autore nel portare avanti il dipanarsi delle vicende, procedendo così nella narrazione. I personaggi, pieni di umana debolezza e miseria, si muovono nella storia in una linea di confine tra l’eroico e il grottesco. Così è descritto un temuto compagno di scuola: “Montanari era senza dubbio il terrore tra i primini della scuola. Era alto e proporzionato, in viso i segni dell’acne turgidi come piccoli crateri. Spavaldo, gesti sicuri, voce forte. Camminava nei corridoi come fosse un gladiatore romano. Possedeva tutte le doti di un capobranco”. Domenico incontrerà Montanari insieme al suo branco nel bagno della scuola, dove subirà l’ennesima umiliazione.

La vicenda, che si sviluppa nell’arco di quasi quindici anni, non è raccontata seguendo un ordine cronologico. Dentello propende per una narrazione che, come indicato dai titoli dei capitoli riportanti mese e anno, alterna l’infanzia all’adolescenza e all’età adulta in un avvincente andirivieni. Si procede per segmenti e immagini, con sequenze dialogiche e narrative il cui ritmo incalza via via, in un crescendo che trascinerà il lettore fino all’ultima pagina. Sarà proprio il lettore a ricomporre le sequenze narrative, collegando i vari episodi e penetrando così l’universo interiore di Domenico.

Un promettente esordio quello di Crocifisso Dentello che, dopo anni alla ricerca di un editore, trova in Gaffi il suo mecenate. Se la casa editrice avrà colto nel segno, individuando in Dentello una voce nuova e meritevole di attenzione, saranno il tempo e i lettori a stabilirlo. Un fatto è certo: Crocifisso Dentello sa scrivere, la sua è una scrittura accurata, elegante e incisiva. Come poi il suo talento si dispiegherà nei prossimi romanzi è tutto da scoprire.

 

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Finché dura la colpa” è il tuo romanzo d’esordio. Pensi di essere riuscito a staccarti dall’autobiografismo che spesso caratterizza le opere prime?

Domenico mi assomiglia molto ma non al punto di essere una mia fedele rappresentazione. Troppe reticenze, troppe mistificazioni per essere un’autobiografia. Il solo atto formale della scrittura è già un irreversibile travestimento, sia pure innestato su sentimenti o episodi realmente esperiti. Sono un romanziere, un inventore di storie e rivendico questo statuto.

 

La storia di Domenico Laurana fa pensare a Federigo Tozzi e al suo romanzo “Con gli occhi chiusi”, oltre che a Italo Svevo e alla sua trilogia (Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno). Rappresentare l’inetto (Domenico non lavora, è stato bocciato a scuola, non riesce ad avere una vita sessuale con la fidanzata, se non in un’occasione) era tua intenzione già prima di iniziare la stesura del romanzo?

Svevo e Tozzi (peraltro richiamato, e non a caso, nel primo capitolo) sono certamente modelli di riferimento. Domenico è come Emilio Brentani, immaturo e vittima delle circostanze; e come Pietro Rosi, tormentato e incapace di relazionarsi con gli altri. Era mia intenzione raccontare la vita di un ventenne tanto alienato da porsi di fatto contro il tempo nel quale vive. Domenico non studia e non lavora, non ha amici e non è interessato al sesso, non guarda la tv e non ascolta musica, non possiede computer o telefonino. Non è la tecnologia multimediale a propiziare la sua fuga dalla realtà ma la lettura onnivora e sistematica di romanzi e poesie. Eppure lo scarto intellettuale non diventa mai riscatto, consapevole elevazione. Non risolve la sua vita ma semmai la cristallizza. Mi affascinava esplorare questa contraddizione.

 

Nella prima parte del romanzo si avverte un’attenzione scrupolosa nella scelta di alcuni termini, attenzione che si mitiga poi nella seconda parte a favore del fluire incalzante della storia. È così o è solo un’impressione?

È vero. Probabilmente nella prima parte ho avvertito la necessità di delineare, con la lenta scansione di una radiografia, côté e personaggio. Nella seconda, l’urgenza del racconto ha preso il sopravvento. Questa disomogeneità in fondo non mi dispiace. Lascia intravedere un’imperfezione che spero riveli un umore inconciliato. L’accuratezza formale non mi appartiene nella misura in cui tradisce l’autenticità di ciò che mi preme narrare.

 

Uno dei verbi che torna in più occasioni è “detonare”: “detonare l’ordigno mentale”, “piccola detonazione”, “lo schiaffo detona come una piccola bomba”, “bomba detonante”. Ti è sembrato ogni volta il termine più appropriato o lo prediligi per qualche motivo?

Mi è parso ogni volta il termine più naturale e dunque il più pertinente. In effetti, questa ricorrenza è la spia di una ossessione. La detonazione, con la sua violenza improvvisa e distruttiva, frantuma un equilibrio, un flusso di normalità. E nella vita incolore di Domenico la detonazione, intesa come suggestione metaforica, è sempre il segnale di un cambio di stato.

 

Passione per la lingua italiana e per l’esattezza delle parole o la tua è stata una ricerca linguistica tesa anche al raggiungimento dell’originalità?

Non amo i virtuosismi. Se il mio dettato appare tuttavia indulgere a un nitore sintattico, voglio credere che sia l’esito delle letture più frequentate e sedimentate. Il secondo Novecento italiano, senza ambizioni epigonali, è certamente il mio deposito inconscio.

 

Nell’epigrafe al romanzo hai inserito una citazione di Beppe Fenoglio, tratta da “La paga del sabato”. Ettore non sa rinunciare alla sua libertà e la sua vita di partigiano è strettamente collegata a quella di bandito. E Domenico? C’è un parallelo tra i due romanzi?

Il mio romanzo è un esplicito omaggio a “La paga del sabato”. La vicenda di Ettore, ex partigiano incapace di ritornare alla normalità della vita civile, ispira, seppur con le debite differenze, la vicenda di Domenico. Anche lui sconta l’incapacità di interagire con la realtà. Se per Ettore è la guerra il punto di non ritorno, per Domenico è una tara generazionale: la morte dell’anima che grava sul nostro tempo opulento e fatuo.

 

Pier Paolo Pasolini è molto presente nel tuo romanzo, oltre che più volte citato: a p. 46 dall’amica Anna («Ho scoperto da poco Pasolini. Un grande!»); a p. 166 la stessa Anna riporta a Domenico la copia di “Tutte le poesie”, scivolatagli in stazione; a p. 242 Domenico, prima di lasciare forse definitivamente la sua casa, torna in camera a prendere la sua copia per portarla con sé. Come si colloca Pasolini nella tua formazione?

Pasolini, al netto degli altri cui sono debitore, resta l’autore di riferimento. Il mio incontro con la sua opera è avvenuto negli anni fragili dell’adolescenza quando solitudine, senso di inadeguatezza e sete di giustizia hanno trovato nelle sue poesie e nei suoi scritti civili un approdo nel quale rifugiarsi. In Pasolini mi affascina ancora oggi la mimetica corrispondenza tra parabola umana e magistero intellettuale. La sua stessa vita diventa, da un punto di vista semiotico, parte integrante del segno. La persona dell’autore è una componente del significante. Per richiamare le parole di Walter Siti, letteratura come “traccia scritta di un’opera vivente”. In un paese di maschere e infingimenti, la figura di Pasolini è entrata nella mia vita con la forza di un cavaliere senza macchia e senza paura.

 

Apprezzi sia lo scrittore, sia il poeta, il regista cinematografico e autore teatrale, oppure propendi per una sua produzione in particolare?

La poesia di Pasolini, omaggiata nel mio romanzo, resta forse l’incontro più fecondo con la sua opera. Con lui, nella mia carriera di lettore, l’emozione ha vinto sulla speculazione intellettuale. Leggere Pasolini è stato come leggere i Vangeli. Nelle sue pagine ho sempre cercato una verità laica capace di definire il mio posto nel mondo, in un mutuo rimando tra le sue e le mie intuizioni. Ho pianto fino allo struggimento con le sue poesie, i suoi romanzi, i suoi articoli, i suoi film, le sue lettere. Nel racconto di quelle vite ai margini, vessate da un potere incapace di accoglierle, io mi ci sono sempre riconosciuto.

 

Una delle numerose descrizioni del protagonista sembra strizzare l’occhio a Kafka e al suo romanzo La metamorfosi (“Resto supino sul letto, incapace di muovermi come un insetto rovesciato sul dorso, le braccia a croce”). Alla fine, Domenico ha ottenuto ciò che voleva?

Domenico non guarisce da se stesso, nemmeno quando la spirale criminale nella quale viene risucchiato lo sospinge verso l’autodistruzione. La ferita inferta dalla realtà – una realtà osservata sempre a igienica distanza – modifica la sua vita solo sotto l’urto della percezione altrui. Dentro di sé non avviene alcuno smottamento interiore. Non perché sia cinico ma proprio per il suo esatto contrario. In lui sopravvive una sorta di innocenza che diventa irriducibile impermeabilità. La sua innocenza “letteraria” resta un’innocenza inerte, non si eleva ad alterità operante. La letteratura salva o non salva? Questa la dolorosissima provocazione con la quale ho inteso confrontarmi.

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