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Come uccidere le aragoste, romanzo d’esordio di Piero Balzoni

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Layout 1I buoni romanzi li scrive gente che non ha paura” sosteneva George Orwell e Piero Balzoni non ha di certo avuto paura di osare con il suo romanzo d’esordio, Come uccidere le aragoste (Giulio Perrone editore, pp. 230, euro 13). Un immaginifico viaggio metropolitano, all’insegna della logica e del surreale, in cui il dolore e la sete di giustizia diventano visionarietà.

Claudio Amodio ha trentaquattro anni, lavora per un’organizzazione non governativa, guadagna quasi novecento euro al mese e spera in un futuro di attivismo ecologico. Adora lo stadio, fuma hashish e arriva sempre primo nelle gare d’apnea, alla piscina del Lungotevere. Una notte, un’auto pirata lo investe a bordo del suo scooter sulla tangenziale deserta (“Claudio, falciato come un birillo del Brunswick, era atterrato sul guardrail, mezzo decapitato. Quattro vertebre infilate nei polmoni”). I carabinieri, arrivati sul posto, telefonano a Luca per comunicargli la morte del fratello. Per tredici mesi, Luca attenderà dai carabinieri una comunicazione che gli riveli i responsabili della morte di Claudio, ma non arriverà. Decide quindi di trovare lui gli assassini del fratello. Ha un solo elemento: la confessione della signora Tommasi, unica testimone oculare dell’incidente. Nient’altro.

Inizia così una bizzarra caccia in giro per la città, in una Roma disumanizzante dove la degenerazione dei sentimenti più semplici, il dolore e la compassione, è forse già compiuta. Tra appostamenti e inseguimenti vari, Luca proverà a mettere in atto una surreale vendetta privata: trovare e distruggere le aragoste. Sembrano proprio “i ricchi” i responsabili dell’incidente e appaiono a Luca come ripugnanti e imprendibili crostacei marini (“Come le aragoste, quelli se ne stavano infilati dentro alla corazza spessa delle auto metallizzate […] Si incastravano tra le rocce d’oro della città, delle banche, delle grandi società di consulenza finanziaria, per evitare il contatto col regno animale, mentre il loro guscio cresceva e si induriva”).

Non sono presenti solo le aragoste nell’immaginario di Luca. Nel romanzo, i genitori dei due fratelli sono assimilati a degli scoiattoli speranzosi “con la ghianda computer stretta tra le zampette laboriose del roditore attento al risparmio”; il fratello è il lupo, il capobranco, ritenuto da sempre una guida per Luca, forse anche per quei dieci anni in più di lui; i carabinieri che hanno fatto portar via il corpo dalla tangenziale sono blatte, gli infermieri del reparto di terapia intensiva sono ippopotami in camice bianco.

Balzoni racconta il disorientamento, l’angoscia per la morte impunita che trasborda nel visionario e gli animali ne sono l’emblema. Evidente è la difficoltà di Luca – e la sua conseguente rinuncia – di mettersi in relazione con gli altri: con Viola, la fidanzata con cui in fondo non ha nulla da spartire, con i genitori che vogliono lui si trasferisca lontano da loro, nella casa di campagna; con l’amico Silverio che di fatto amico non è, con l’anziana signora Tommasi che in fondo frequenta per carpire dettagli utili alla sua ricerca e non certo per farle compagnia.

Le scene rappresentate nel romanzo da Piero Balzoni, sceneggiatore e script editor per la televisione, sono cristalline e paradossalmente verosimili. Efficaci sono le descrizioni, soprattutto quelle derivanti dal punto di vista di altri personaggi, come quella di Viola, alla quale piace tutto di Luca: “l’ombelico all’infuori che sporgeva dalla maglietta, come quello dei bambini piccoli, le spalle larghe e magre, i ciuffi castani aggrovigliati sulla testa e quella faccia disordinata che pareva gli avessero sputato sul viso una serie di pezzi scombinati”.

Come uccidere le aragoste è un romanzo dirompente che racconta una reazione al dolore senza piagnistei, con un finale tutt’altro che consolatorio.

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Quella per gli animali è una tua predilezione. La tua prima raccolta di racconti è intitolata “Animali migratori”. Nel tuo primo romanzo, “Come uccidere le aragoste”, i personaggi sono assimilati a degli animali. Da dove nasce questo continuo rimando? Cosa ti consente di raccontare?

 Per me l’uomo è un animale disadattato. Se penso alle relazioni tra animali, invece, queste mi sembrano sempre vivere in un rapporto di equilibrio. Rapporto che spesso siamo anche in grado di comprendere nei suoi meccanismi. Sappiamo quali sono le reazioni di una tigre, di un’orca, di un cane e di un gatto, eppure di fronte a un altro essere della nostra specie, non sappiamo mai come questi reagirà. Ecco, a me sembrava interessante il tentativo di “catalogare” gli atteggiamenti dell’uomo usando l’ottica della classificazione animale.

Hai pensato, mentre scrivevi, a “La fattoria degli animali” di George Orwell? Ti sembra un riferimento pertinente o azzardato?

Ho letto Orwell in quarta elementare perché una mia maestra di allora trovava curioso che in ogni tema di italiano inserissi sempre figure di animali. Ho ancora impressa l’immagine della mutazione dei maiali in esseri umani alla luce di una candela e come pian piano questi diventavano indistinguibili l’uno dall’altro. Scrivendo la raccolta di racconti prima e il romanzo poi, non ho di certo agito con la coscienza di questo ricordo ma di sicuro mi ha influenzato. Orwell, Esopo e Kafka – di cui ho letto La metamorfosi nello stesso anno di La fattoria degli animali – hanno in comune lo stesso obiettivo: ricordare agli uomini che la legge della natura vale anche per noi.

Il titolo, “Come uccidere le aragoste”, è stato deciso da te o concordato con la casa editrice Giulio Perrone?

Il titolo non è mai cambiato e ne sono felice. Credo che parte della fortuna che sta avendo il libro sia dovuta proprio a questo. Quando ci siamo conosciuti con Giulio e Mariacarmela, dopo la vittoria del Premio Orlando Esplorazioni, non abbiamo dovuto neanche rifletterci. Come uccidere le aragoste era un titolo perfetto.

Chi sono le aragoste in questo nostro tempo?

Le aragoste sono i nuovi ricchi. Girano a bordo di auto lussuose, Suv che rappresentano la loro corazza, e si nascondono nelle spelonche della città. Sono indistinguibili, imprendibili e soprattutto non provano alcun sentimento, nemmeno il più semplice: il dolore.

Nel romanzo, è molto presente la sveglia del cellulare che si attiva più volte al giorno per ricordare a Luca la prenotazione agli esami universitari, l’invio degli articoli di critica per MovieCity.it, gli appuntamenti con i professori, l’acquisto di alcuni libri, necessari per prepararsi alla cattura delle aragoste; suona persino la sera per ricordargli di puntare la sveglia il mattino seguente. Che cosa rappresenta il tempo per Luca?

Il tempo è una variabile creata dall’uomo per gestire in modo proficuo la propria esistenza: il momento di cacciare, il momento di mangiare, il momento di dormire e così via. Ma l’universo di Luca, dopo la morte di suo fratello maggiore, è collassato. E così le variabili umane non contano più, sebbene lui non ne sia consapevole. L’incapacità di gestire il tempo nella modalità umana è qualcosa che lo avvicina inesorabilmente al mondo degli animali, un effetto indesiderato della mutazione che lo investe.

Così come Luca va a caccia delle aragoste, anche tu dopo la stesura del romanzo sei stato per circa quattro anni alla ricerca di una casa editrice. Avventure che racconti nella rubrica settimanale del tuo blog www.comeucciderelearagoste.it. Raccontacene qualcuna.

Qualche anno fa, prima del Premio Orlando e del Premio Città di Forlì, ho raggiunto con questo manoscritto la fase finale di un concorso a cui avevo partecipato. Quando eravamo rimasti soltanto in cinque, mi sono accorto che tra i giurati che avrebbero scelto il vincitore c’era anche un agente letterario che lavorava insieme a case editrici a pagamento. È un’attività che rifiuto e di cui parlo anche nel mio romanzo, perciò mi è sembrato giusto ritirare l’opera. Prima ancora, mi era stato fatto un editing del testo da un editore che si diceva enormemente interessato e che all’ultimo secondo invece si è tirato indietro. Racconto tutto nella rubrica Come ho fatto a trovare un editore, all’interno del blog.

Poi è arrivato il Premio Orlando Esplorazioni 2015 che hai vinto e da lì la pubblicazione. Com’è stato il contatto con Giulio Perrone? Soprattutto come avete lavorato prima dell’uscita del romanzo?

Giulio Perrone si è detto subito interessato al romanzo e il lavoro è iniziato poche settimane dopo la vittoria del premio. Devo moltissimo a Mariacarmela Leto, direttrice editoriale della Giulio Perrone, che non solo ha selezionato il mio testo ma lo ha anche trasformato in un vero e proprio romanzo attraverso un editing davvero efficace. I suoi consigli e le sue osservazioni mi hanno tenuto lontano da errori e trappole in cui di solito si va incontro in un esordio. Poi c’è stata la scelta della copertina, su cui abbiamo lavorato a stretto contatto con il mio amico Paolo Tommasini e che nasce proprio da uno spunto di Mariacarmela e di tutta la redazione. Ora stiamo lavorando con Isabella Borghese alle tappe del tour e ai rapporti con la stampa. Posso solo dire che Giulio e Mariacarmela hanno dato vita, ormai più di dieci anni fa, a una realtà nuova e diversa nel panorama italiano.

Protagonista indiscussa del romanzo è Roma e la sua complessità. Che rapporto hai con la tua città?

Avevo bisogno di far muovere i personaggi del romanzo in un’arena spietata e in questo devo dire che Roma mi ha aiutato molto. Ho sempre desiderato vivere un’esperienza di qualche anno lontano da questa città in cui sono nato e cresciuto, eppure nonostante quel che mi auguravo non sono mai riuscito ad abbandonarla. Perciò forse il mio giudizio può sembrare viziato da un eccesso d’amore e odio ma più la vivo e più mi rendo conto che Roma è dominata dalla prepotenza in ogni suo aspetto e a ogni livello. Mafia Capitale è soltanto la punta dell’iceberg ma sono certo che ne vedrete ancora delle belle.

Si può parlare del tuo romanzo come una denuncia contro un’ingiustizia – il reato di omissione di soccorso in un incidente stradale – o non ti sembra rispondente alle tue intenzioni?

Ti racconto una cosa: alla fine di una delle presentazioni del libro, una signora sui sessant’anni mi si è avvicinata per farsi autografare la sua copia e con le lacrime agli occhi mi ha raccontato che suo nipote era morto appena un paio d’anni prima in un incidente stradale. Mi ha detto che la rabbia e il senso di impotenza che ha provato allora erano esattamente gli stessi che stava ritrovando nel romanzo. Allora ho capito che forse avevo scelto il modo corretto per canalizzare il mio odio, ho capito che questa storia poteva essere addirittura utile.

Sul piano del linguaggio e dello stile si percepisce una ricerca spasmodica del grottesco. L’obiettivo, oltre a esplorare i tratti più istintivi e autentici della natura umana, era forse stupire?

Non volevo stupire e forse nemmeno esplorare. Io desideravo che questa storia si reggesse sulle proprie gambe, che fosse sincera. Non ho pensato a un pubblico di lettori, mentre scrivevo, e neppure a renderla grottesca. Forse però i testi dei cannibali, con i quali sono cresciuto da ragazzo, sono emersi qui e là senza che ne fossi davvero cosciente.

Hai dichiarato che ci sono dei libri che ti hanno cambiato e che forse hanno modificato radicalmente anche il tuo modo di scrivere. Tra questi, “Delitto e castigo”.

In Delitto e castigo vi è un pensiero, se vuoi sconsiderato, che d’improvviso si fa azione. È una sorta di reazione esasperata al contesto intollerabile di quella Russia di cui abbiamo soltanto letto nei libri di storia. Raskol’nikov è immerso in un contesto disgraziato e ingiusto e reagisce a suo modo. Sono le conseguenze dell’odio che lo guidano. Ecco, a rileggerlo oggi direi che romanzi come quello mi hanno portato a ricercare per prima cosa l’unità stilistica in ciò che scrivo.

Nelle scorse settimane si è celebrato il 40° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini. Che cosa pensi di lui come intellettuale? È citatissimo e non compreso ai più o è un autore che ha saputo invece comunicare a molti?

Ricordare Pasolini è indispensabile, oserei dire che si tratta di una delle poche celebrazioni adeguate di quest’anno ed è il segno della sua indiscutibile capacità di comunicare al di là del suo volere. Romanzi come Una vita violenta sono l’esempio lampante di questa sua capacità. Come cittadino ho partecipato ad alcune commemorazioni in suo ricordo ma quel che mi sento di dire come autore, soprattutto se voglio onorare davvero la memoria di Pasolini, è che non potrei confrontarmi con lui. La ricerca di un suo erede è un fardello insopportabile per la nostra generazione.

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