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Il grande lucernario. Intervista a MariaGiovanna Luini

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Ride. Fa un segno volgare con un dito e propone il ristorante cinese che ha anche sushi: figurati, sai la fantasia. Adoriamo la cucina cinese e giapponese, io ho anche una passione per lo zighinì eritreo e alcune insalate libanesi, ma tocca a lei scegliere. E amo la cucina Thai, l’hummus di ceci, tutti i ravioli orientali di foggia differente tranne quelli di verdura, i piatti misti di carne e verdura con salse a parte, le patate. Vado pazza per le pietanze sicule: credo che le panelle – le frittelle di farina di ceci che si possono gustare anche nel pane, con il pepe e una spruzzata di limone – siano da tutelare come bene assoluto dell’umanità. E vogliamo parlare della brianzolissima cassoeula con la polenta? Come per il sesso, dovrei dire che ho una passione per il cibo in generale: divento pazza quando provo piacere, lo ricerco e lo inseguo. Umberto diceva che per me la rosticceria più in di Milano è il centro del mondo, rideva chiamandomi «italiani sempre manciare». Raccontava che quando da ragazzino aiutava i partigiani fu ferito dall’esplosione di una bomba e portò la scheggia nel corpo sino alla fine: osservando le mie abitudini alimentari imitava alcuni soldati tedeschi che prendevano in giro gli italiani perché pensavano sempre a mangiare.

«Italiani sempre manciare!» Se mi sorprendeva a mangiare ridacchiava e: «Italiani sempre manciare!»

MariaGiovanna Luini

(da Il Grande Lucernario, Mondadori, 2018)

***

Il Grande Lucernario è Umberto Veronesi a cui il libro, anche, è dedicato. Com’è nata la scelta di questo titolo?

Il mio titolo provvisorio era un altro, ma ogni volta che concludo un manoscritto scelgo un titolo perché è obbligatorio farlo (più o meno): mi aspetto poi che l’Editore ne proponga uno. Il titolo è parte importante, come la copertina: sono fortissima lettrice e so cosa mi attrae e cosa no, ho fiducia negli editori quando si tratta di costruire la parte fisica di un libro. Infatti l’Editore ha proposto “Il Grande Lucernario” partendo dallo spunto di un episodio che racconto nel libro. Me ne sono innamorata: per chi conosceva bene Veronesi la storia del lucernario è molto familiare. Quando ancora nessuno avrebbe potuto intuire cosa avrei pubblicato bastava che citassi il lucernario perché i più vicini collaboratori di Veronesi scoppiassero a ridere e non chiedessero altro: qualunque narrazione avessi in mente, c’entrava il professore.

All’inizio della narrazione ricorda suo padre Abele, anche lui medico, che a un certo punto, nonostante la brillante carriera e ben quattro specializzazioni, decise di tornare a fare il medico di base, con le persone che andavano a cercare a casa el dutùr per chiedergli aiuto. Che cosa le ha trasmesso il Dottor Abele con il suo esempio di vita?

Non ha scelto di fare il medico di Medicina Generale nonostante le specializzazioni: lo ha fatto in virtù di questa formazione profonda. Il medico di Medicina Generale ha a che fare con qualsiasi patologia possibile, se la deve cavare da solo e con pochissimi elementi in suo aiuto nelle urgenze, nelle situazioni difficili, a casa della gente o in ambulatorio: è una figura fondamentale, il primo baluardo di assistenza e cura. Abele è un Uomo Medicina, come lo definirebbero i Nativi Americani. Nel libro racconto il suo insegnamento: non si fa il medico, si è medico. Oggi uso la sua valigetta, da cui non ho tolto il suo ricettario e i libri che sempre consultava: nei momenti (tanti) di dubbio su una diagnosi o una terapia lancio uno sguardo o sfioro la valigetta, è una connessione diretta con lui. Tra le centinaia di insegnamenti appresi dal primo giorno della mia vita c’è la prescrizione corretta degli oppiacei per chi ha dolori fisici: in tempi diversi da oggi mi ha trasmesso la cultura delle cure senza dolore, insegnandomi a coprire i sintomi con tutti i mezzi possibili.

Sono argomenti presenti nel libro anche il tumore e la morte, dei quali dice con onestà. Non è quindi vero che la morte resta un argomento “irraccontabile”?

Come potrebbe esserlo, visto che la morte riguarda ognuno di noi? Ignorarla è ipocrita. Per me esiste la morte del corpo, non dell’energia consapevole che siamo. Soffro molto quando chi amo esce dal corpo fisico, ma so che l’essenza non è perduta. Parlare (anche) di morte senza mistificazione e senza ossessione è onorare la vita. Per il tumore la questione è diversa: scrivo di persone e a volte queste persone sono affette da tumore; la malattia in sé non merita un libro, ma le persone sì. La loro esperienza con il tumore insegna qualcosa, sempre, e la memoria è amore. Però non voglio che la mia scrittura sia caratterizzata dal monopolio del dolore e del buio: la luce è l’elemento fondamentale per ogni nostra espressione creativa, il senso di ciò che scrivo è interrogarmi sulla luce e non sul peso del buio. Di tutto si può ragionare, ma senza il compiacimento torbido dell’insistenza su ciò che fa male: non sono una scrittrice così.

Lei è medico convintissimo di restare tale e tuttavia ha aperto la sua mente per aggiungere metodi che danno sollievo a chi soffre. Come sono percepiti in Italia i medici che seguono la medicina integrata?

Sono membro medico delle società di Medicina Integrata europea e americana: in Italia vivo la mia esperienza quotidiana con uno slalom tra comprensione e ostacoli. Tanti medici esplorano vie di integrazione, anche se non sempre lo dichiarano in modo aperto. Li capisco: oggi chi mostra il volto diventa bersaglio, ma non da parte dei pazienti che comprendono benissimo ciò che facciamo (e lo apprezzano). Viviamo in un tempo strano: è come se fosse obbligatorio stare da una parte (quale?) o dall’altra. Spari su tutto ciò che è olistico oppure denigri la medicina ufficiale: non c’è niente in mezzo. Abbiamo iper-scienziati o iper-divulgatori che sfidano a duello iper-alternativi: se non fosse triste sarebbe divertente, visto che a nessuna delle due fazioni viene in mente di aprire i motori di ricerca scientifici per andare là dove si sta studiando la medicina integrata. Gli studi sugli approcci integrati complementari esistono: bisogna avere la voglia di leggerli e di seguirne l’evoluzione. I pazienti, tra l’altro, hanno il diritto di ricevere informazioni accurate e non solo opinioni personali.

E’ un tempo passeggero, la recrudescenza di aggressività tra i due gruppi pro e contro la medicina convenzionale “assoluta” indica che stiamo per cambiare la nostra cultura. L’energia vitale non si ferma: niente lotte fratricide o caccia alle streghe, si amplia la visione e si respira più largo. Integreremo, e lo faremo studiando. I tanti medici che oggi praticano la medicina integrata senza esporsi lo faranno sentendosi meno precari. La gente si fida di te se vede che non respingi a priori ipotesi che la medicina sta ancora valutando: quando studi sul serio puoi dire sì o no in modo motivato, affrontare gli argomenti non negandoli con una smorfia e un gesto sprezzante della mano per chiudere il discorso, trattando il paziente come va trattato. Il proliferare di improbabili guru che tolgono terapie preziose a malati disperati dipende anche dall’atteggiamento chiuso di alcuni di noi (medici).

Non sempre risulta chiaro che si resti medici, con una formazione continua di tipo scientifico, pure approfondendo approcci non convenzionali: è come se ci si dovesse difendere dall’accusa di alto tradimento o dal sospetto di negare terapie preziose a persone malate. L’integrazione non è sostituzione: non mi sognerei mai di togliere strumenti scientifici sostituendoli con altro. Studio perché voglio aprire, ampliare, badare al corpo fisico, alle emozioni, all’energia, a tutto ciò che il paziente è. In altri Paesi europei è del tutto naturale che i medici si aprano a esperienze complementari e le usino, senza rinnegare i loro studi e la fiducia nella medicina. Se emigrassi in Germania sarei immediatamente accolta senza domande. Accadrà in Italia con maggiore naturalezza: ho fiducia, è un processo che non si può arrestare.

Nel libro c’è scritto: “La salute non legge i libri, la malattia nemmeno: ecco perché in medicina si parla di scienza e coscienza”. Come si rapporta con scienza e coscienza?

Con la scienza esiste un solo modo per rapportarsi: studiare dalle fonti dirette, essere aggiornati, conoscere gli strumenti e i metodi della ricerca, seguire le pubblicazioni scientifiche. Sono medico olistico e approfondisco tecniche non convenzionali, ma ho due specializzazioni e un master universitario in campo medico: nella mia formazione ho lavorato all’estero e pubblicato su molte riviste scientifiche. L’abitudine a studiare è ovvia, e vale anche per gli approcci non convenzionali che scelgo di applicare oppure no: se li uso o li rifiuto è perché li ho prima approfonditi.

La coscienza è il mio istinto, è la Voce interiore, l’Anima: la ascolto e la trovo nel silenzio, la interrogo molte volte ogni giorno. La Voce è personale: ognuno di noi sa cosa intendo.

A volte può capitare che il “paziente” si senta trattato senza amore e senza dignità. Cosa direbbe a chi si è sentito così?

Suggerisco di dirlo, di spiegarsi, di non avere soggezione o timore, ma anche di cercare il dialogo con i medici e il personale sanitario. Il paziente non ha sempre ragione, e non ha sempre ragione il medico (o l’infermiere): esistono ragioni, tempi, situazioni che devono essere discusse e rese chiare per una relazione che avvicini e non separi. Nei pazienti può esistere una quota di rabbia normalissima che non sempre deriva in modo oggettivo da ciò che stanno contestando ai medici: la rabbia è una reazione alla malattia, allo stress profondo delle cure, alla paura, a mille altre legittime ragioni. Oppure è vero che sono stati trattati male, dal punto di vista empatico e/o medico: bisogna saperlo, allora. Il dialogo è la vera forza di una relazione: franchezza e non aggressività, apertura e non chiusura.

Un enunciato di Umberto Veronesi da lei raccontato nel libro, mi è rimasto impresso per le sue semplicità e verità: “Mia mamma mi ha insegnato che quando ti chiedono come stai, devi sempre rispondere che stai bene.” Cosa porta, nella conversazione che si va instaurando tra persone, una risposta come questa?

Ho molto riflettuto su questo. Tante sono le possibili spiegazioni. Oggi credo che fosse una formula magica, la mamma di Veronesi aveva scoperto (come è tipico delle donne) una magia da attivare con le parole. Se dico a chi incontro che sto bene sono costretto a crederci io stessa, almeno per qualche minuto: devo mostrare un atteggiamento conseguente alle parole. La conversazione quindi sarà proficua e piacevole, o comunque avrà energia forte e salda. E innesco un processo di autoguarigione. Del resto, il mio maestro Alejandro Jodorowsky insiste molto sull’uso delle parole e dell’atteggiamento per plasmare la realtà interna e circostante. Provate a entrare in una stanza pensando di essere perdenti: ditemi cosa accade dentro e fuori di voi. Provate a farlo sentendovi i più belli del mondo, affascinanti e ricchi: tutto sarà diverso.

Nel suo precedente romanzo intitolato “La luce che brilla sui tetti”, uno dei protagonisti del libro è il medico Sauro de Santis (ispirato a Mario Sideri) che a un certo punto dice: “E per come la penso io, ci sarò comunque. Sarò la tua luce che brilla sui tetti. Ricordatelo.” Anche in questo libro scrive di lui. Ci racconti un piccolo ricordo legato al suo indimenticabile collega.

Mario era indimenticabile, e l’Anima che si chiamava Mario Sideri è ancora viva ed è eterna. Come è eterna l’Anima di ognuno di noi. Ho scelto di scrivere di Mario anche in questo libro perché volevo restituirgli un racconto il più possibile reale dopo la finzione del romanzo “La luce che brilla sui tetti”: è il compimento di un percorso, per me e per ciò che lui era. Ciò che “Mario” è oggi non ha bisogno di compimento o di ulteriori ricordi da condividere: è vivo, lo è sul serio, e permea il respiro umano di chi ha amato e continua ad amare e delle tante persone ancora incarnate che con lui hanno avuto a che fare.

L’amore è la prima cura, me ne frego dei sorrisetti saccenti e delle insinuazioni”. Così si legge nel libro. Chi asserisce che frasi come “l’amore è la prima cura” è banale, lo pensa davvero oppure fa comodo dire che si pensa così?

Dovrei trovarmi nella testa altrui per rispondere. Ho scelto tanto tempo fa di smettere di giudicare, quindi di pensare al posto degli altri. Non ho idea di cosa sia genuino e cosa no nelle azioni, nelle parole, nei gesti altrui: so solo che anche la più sfacciata bugia ha un nucleo di verità, mascherato per paura o divertimento o mille altre ragioni. Possiamo illuderci di controllare le parole ma non sappiamo controllare il vero magma della nostra energia vitale. Quando pensiamo di mentire qualcosa di noi sta urlando la verità, ma quale verità poi? Tutto è vero se lo crediamo tale. Alle persone che vengono da me nello studio in via P. (citato spesso nel libro – è il Centro Metis) consiglio di evitare del tutto di illudersi di conoscere i motivi per il comportamento altrui.

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