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Ilaria Palomba. Brama

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Brama, il nuovo romanzo di Ilaria Palomba, edito nel 2021 da Giulio Perrone Editore editore, 259 pagine, ripercorre mescolate dispoticamente tra loro tre età della protagonista, quella di bambina, quella di adolescente, quella attuale, quasi seguendo il filo conduttore espresso da Gustav Klimt nel dipinto delle Tre età. Una età dispiega qualcosa delle altre due, conservandone il retaggio delle pulsioni e l’Oggetto disfunzionale da queste mai appagato, si compone quindi una sorta di quadro psicoanalitico, un’anamnesi che fa luce su uno squilibrio che si scopre reiterato senza soluzione di continuità, ossia una lesione che si ripresenta ogni volta, puntuale quale mera recrudescenza nell’età successiva. Come se quella mancanza affettiva in ambito familiare (i rapporti complessi col padre e la madre) sofferta da bambina si ripercuotesse identica nelle fasi dell’evoluzione anagrafica, ciò senza che vi possa porre rimedio, senza che quella frattura primigenia non si diffonda nell’età adulta ricavandone come effetto non certo secondario un’estenuazione progressiva della psiche, dove si combina al contempo impotenza e rabbia, estenuazione che si riflette sintomatica di un rigetto inconciliabile che finirà per scatenarsi proprio contro se stessi, col ricorso a tre tentativi di suicidio, all’uso di psicofarmaci e droghe, ad una sessualità promiscua ed infelice. Eppure stiamo parlando di una donna capace, sensibile, affascinante, idonea all’amore, con interessi letterari cospicui, frequentazioni di spessore in ambito universitario tra i quali decisiva quella con Carlo Brama, ricercatore universitario poi ordinato a ruolo, filosofo a suo modo geniale, le cui opere sono ispirate da Bataille, Cioran, Jung e Deleuze. Di questo uomo di mezza età, che non ammette compromissioni né gelosie, che non vuole un legame effettivo, Bianca finirà per innamorarsi senza mai trascendere in una vera rivendicazione che la dislochi davvero nello spirito (anelato nel subconscio) di una relazione vera, socialmente riconoscibile. Sembra allora avverarsi una nemesi perché anche da bambina e poi da adolescente lo stesso smarrimento affettivo si ritrova nel rapporto col padre psicoanalista marxista, fedifrago solo virtuale, sempre occupato coi suoi studi, coi suoi pazienti, il cui più grande merito è stato certamente quello di trasmettere a questa figlia sui generis l’amore per la lettura e la conoscenza. Quando bambina Bianca chiede al padre perché non trovi mai tempo per restare con lei, il padre replica con l’argomentazione più ovvia: che qualcuno deve provvedere a guadagnare il pane per mantenere lei e sua madre, qui Bianca ribatte che non vuole più mangiare il suo pane se ciò comporta la sua diserzione, che preferisce morire di fame. Ecco questa risposta segnerà tutta la narrazione, laddove il deficit affettivo si mostri irrefutabile proprio perché indotto dalle esigenze della vita e del lavoro, terreno nel quale Bianca si riscontra del tutto disarmata, non può davvero opporsi allo status di un sistema stabilito come a priori, è qua che la reazione diventa rigetto di un sistema globale che elude in sé ogni autentica affettività, che depriva l’umanità del solo valore che conti, quello dell’amore, della lealtà conseguente a questa aspirazione, ecco che questo rigetto diventa emotivo, esistenziale, esiziale per se stessi, quando nel sottrarsi dell’altro ad una vera affettività Bianca crede che ciò possa dipendere da una propria inettitudine, operazione che la fa retrocedere appunto al l’infanzia nel suo rapporto paterno, sino ad affermarsi lei colpevole, concependo la colpa come qualcosa da espiare, un transfert insomma che addossa a sé le colpe degli altri, le mancanze, l’inettitudine degli altri, espiazione che si materializzerà coi tentativi di sparizione fisica, con l’obnubilarsi della coscienza tramite l’uso di droghe, farmaci inibitori, alimentando un progressivo inevitabile processo psicotico nel quale l’individuo avrà individuato in sé solo in capo a sé tutti i mali del mondo. In modo magistrale il romanzo fa affiorare questo aspetto deteriore del transfert psicoanalitico riprodotto ogni volta, è qui che domina la nemesi appunto, è la sua conflagrazione infallibile che si riproduce a ogni svolta esistenziale, che finisce per esasperare perché si chiude ormai tacitata alla speranza, sancisce la perentorietà di una strada senza uscita che riesce a sgominare in radice la stessa auto affermazione della fiducia nel prossimo e per effetto in se stessi (perché noi siamo in relazione agli altri), con ciò si saranno anche disarmate le intenzioni di conciliazione, si darà l’abbrutimento in una desolazione senza scampo, scabrosa, disfunzionale.

Masochismo e sadismo sono categorie dell’analisi fondamentali per Freud, Wllicott, Klein e Jung, ma i due estremi hanno un comune denominatore, la loro reversibilità, il masochista è anche un sadico oppure lo diverrà (Martha di Fassbinder spiegherà alla perfezione questo cambio di registro comportamentale). Ecco che nel prosieguo della narrazione questo scambio di ruolo si avvera, non sarà più lei la designata a fortiori di chi subisce gli eventi, comincia una sorte di interventismo con cui aiuterà la sua amica Francesca a superare il suicidio del suo compagno, interverrà nelle carceri e nei reparti psichiatrici insegnando scrittura creativa, finché la metamorfosi si sarà completata nel momento stesso in cui fornirà a Carlo il suo ultimo calvario, da costui condotta quasi per mano alla deliberazione della morte cruenta, la più acerrima delle aberrazioni l’assassinio rituale, e con ciò il ritorno agognato all’impermanenza nirvanica agognata, Bianca subirà questa metamorfosi che è uno stravolgimento delle sue origini, del suo essere remissiva, tollerante, temperata dal raziocinio che finché si configura in termini di masochismo ottiene una propria plausibilità, laddove si configura lo scambio (da basico ente masochista ad agente sadico) questo rileverà pure l’orrore iconoclasta di una definiva amputazione dal mondo, la piena coscienza dell’assassinio come ultima Thule nel bel mezzo di un mondo che ristagna ormai in disgregazione del tessuto collettivo, crisi dei rapporti affettivi, evanescenza dei sentimenti ed in non autenticità, di un mondo ormai non solo ancora dominio delle merci e della subcultura borghese ma più esattamente suppurazione di un dominio che sa di stantio, obliterato da una realtà acefala ormai senza una direzione che non sia quella della propria auto disintegrazione bellica, ambientale e sanitaria. Colpisce l’insieme del contesto che circonda Bianca, dovunque sofferenza, depressioni come endemiche, crescente povertà, crisi identitarie, suicidi e tentativi di suicidio, abuso spasmodico di inibitori ed antidepressivi, silenziati intontiti da quelle museruole poste alla coscienza rappresentate dalle droghe. Un libro tremendo per la sua onestà disarmante con cui non si nasconde il disagio di vivere, l’inettitudine generale ad amare, lo sfaldamento antropologico dell’istituto familiare, l’assenza di figli, il vuoto prospettico di un futuro che nemmeno si immagina più, lo scardinamento di un intero sistema sociale con cui si è costretti a misurarsi senza passioni ed ideali. Non certo un romanzo di routine, ma denso di analisi, temerario per come affonda il coltello senza esitare a rilevare il proprio disagio, la propria non appartenenza ad un genere umano spogliato da ogni coerenza salvifica, solo inteso a guadagnare, a o seguire le chimeriche opzioni della varnitas come il solo punto di raccordo col Mondo, come non sussistesse altro che l’Io supremo indifferente al resto.

Libro coraggioso, temerario, indolente nel suo dolore che si reincarna, asciutto nella sintassi, acuto nell’analisi del suo non divenire altro che il riflesso di una prostrazione infinita senza vie d’uscita reali. Direi bellissimo!

Marcello Chinca

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