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Matteo Cavezzali inedito. Amedeo

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Amedeo ogni giorno, si siede per ore nella panchina davanti alla finestra di casa mia.

Amedeo è l’ultima traccia rimasta di quel mondo dimenticato. Ha novantatre anni. Ha visto finire molti mondi. Ha visto crollare il fascismo, che pareva una dittatura destinata ed essere immortale. Ha visto finire la Democrazia Cristiana e il comunismo. Ha visto scomparire le lire e le sigarette di cioccolato. Le cabine del telefono della SIP e le videocassette. Ha visto finire molti lavori, tra cui il suo.

Per molti anni aveva lavorato in una fabbrica di macchine da scrivere della Olivetti. Erano le Ferrari delle macchine da scrivere. Con quelle i più grandi scrittori avevano composto i loro capolavori, da Pavese a Montale, da Calvino a Volponi. E ora che fine avevano fatto? Ora si scriveva senza carta, e questo non riusciva proprio a mandarlo giù. Come si può scrivere su uno schermo luminoso senza sporcarsi di inchiostro? Se non lasci un segno su un foglio stai veramente scrivendo? O è solo un fatto di impulsi elettronici, di zero e di uno e cristalli liquidi?

Amedeo è sconsolato. Dice che questi tempi non li capisce, e sinceramente non lo interessano nemmeno.

Amedeo lo puoi vedere seduto sulla panchina, in via Mazzini, con il maglione a scacchi rossi e viola. Anche d’estate.

Amedeo ogni tanto ha lo sguardo triste. Lo si capisce perché rimane immobile sulla panchina. Anche quando è felice rimane immobile sulla panchina, però è felice.

Amedeo una volta si era messo un maglione diverso. Ma non si è trovato molto bene, il giorno dopo ha rimesso il solito.

Amedeo una volta si era innamorato di una sua compagna di scuola. Le aveva scritto una lettera, che lei aveva trovato sopra al suo banco. Era una lettera minimale, senza troppi fronzoli. Diretta. “Sei bellissima. Molto”. Lei non aveva risposto. Visto che non aveva detto di “no” esplicitamente, lui nutriva ancora qualche speranza. Erano passati ottantadue anni. Amedeo era un inguaribile ottimista.

Ad Amedeo piaceva vedere i treni che partivano dalla stazione. Lo aveva portato suo padre a vederli, quando era bambino. Gli facevano tornare in mente che anche lui era stato un bambino. Tanto tempo prima. Ci passava le ore a guardare i treni.

Amedeo non era mai salito su un treno. Non era mai uscito dal Borgo San Rocco, se non per andare in stazione, a vedere i treni. Per lui quello era già un viaggio.

Per andare a vedere i treni Amedeo portava la valigia. La riempiva di magliette, mutande e calzini. Perché non si sa mai, magari un giorno sarebbe partito davvero. Non si può mai sapere.

Quando era di buon umore Amedeo parlava con tutti. Fermava anche i testimoni di Geova. Tentava ogni volta di convincerli che Dio non esiste. Ogni volta.

Amedeo ogni anno compiva gli anni. Sempre lo stesso giorno.

Quasi tutti pensavano che Amedeo fosse strano, e dire che Amedeo era sicuro che fossero loro gli strani.

Amedeo cantava arie liriche quando andava in bicicletta. A squarcia gola. Non era neanche stonato.

Amedeo guardandosi riflesso in una vetrina aveva detto che il suo riflesso gli assomigliava abbastanza, ma era più spettinato.

Amedeo sosteneva che in Italia si sarebbe stato meglio se ci fossero stati meno italiani e più romagnoli. E in Romagna meno romagnoli e più ravennati. E a Ravenna meno persone del centro e più gente del Borgo.

Amedeo aveva imparato una poesia a memoria. Una poesia che gli piaceva davvero molto. Una poesia che non ricordava più. Purtroppo.

Ogni tanto Amedeo aveva fatto l’elemosina, ma non chiedeva mai un euro. Chiedeva cinquanta euro, perché non voleva fare la figura dell’accattone per due spicci.

Amedeo una volta si era addormentato sulla sua panchina e aveva sognato di essersi addormentato sulla sua panchina. Nel sogno del sogno aveva sognato di essersi addormentato sulla sua panchina mentre sognava di essersi addormentato sulla sua panchina. Si è svegliato col mal di testa.

Amedeo aveva le visioni. Una volta aveva parlato un paio d’ore con Garibaldi, che si era seduto accanto a lui sulla panchina. Poi aveva detto: “È simpatico, non te la fa pesare troppo di essere Garibaldi”.

Amedeo si preoccupava per tutti. Per i passanti, per chi rimaneva in casa, per il Borgo San Rocco, per tutta la città, per tutta l’Italia, per l’Universo intero e le galassie.

Per vedere i confini dell’Universo Amedeo guardava dentro l’armadio, dietro alle giacche, nel buio.

Amedeo una volta era uscito con una ragazza. Erano usciti il 13 maggio 1976: un sabato.

Lunedì 8 maggio aveva fissato l’appuntamento con lei. Aveva passato il martedì 9 maggio dal parrucchiere. Il mercoledì 10 maggio aveva comprato un vestito nuovo. Il giovedì 11 maggio si era preparato qualche discorso simpatico. Il venerdì 12 maggio aveva trovato un profumo, con una fragranza perfetta. Poi il sabato 13 maggio erano usciti insieme e domenica 14 maggio aveva pianto tutto il giorno.

Amedeo non si era più ripreso, dalla vita.

“La vita mi sta uccidendo”, diceva.

Amedeo collezionava sacchetti. Ne aveva migliaia. Di tutti i colori e forme. Di carta, di plastica, di stoffa. Con disegni, marchi di negozi noti, con scritte in lingue straniere. Anche in cirillico. “Quando morirò li donerò tutti al museo”. Diceva. Non so a che museo si riferisse.

Amedeo aveva scritto un libro di poesie. Poesie che “ci riguardavano tutti”, aveva detto. Ero molto curioso, ma il libro non uscì mai.

Amedeo beveva solo Martini. Il cocktail Martini, non il Martini vermouth e nemmeno l’amaro. Controllava i baristi mentre lo facevano. Che non sbagliassero la formula. Era facile, eppure nessuno lo sapeva fare. Neanche lui.

Amedeo credeva agli alieni. Anche gli alieni, dal canto loro, credevano ad Amedeo.

Dalla sua panchina Amedeo guardava passare il mondo.

Accanto alla panchina di Amedeo c’era un forno: il Chicco di Grano. L’odore del pane era una delle cose che gli piaceva di più. Anche se il pane che facevano adesso, non aveva il sapore del pane di quando era bambino. “Per capire quanto era buono, bisognerebbe tornare ad avere fame”, aveva detto.

Una volta una turista svizzera chiese ad Amedeo dove fosse la chiesa di Sant’Agata Maggiore e lui la mandò dalla parte opposta.

Ad Amedeo piacciono le persone, ma la gente proprio non la sopporta.

Amedeo da piccolo voleva fare il pittore, anche da grande voleva fare il pittore. Però non poteva, perché non aveva mai comprato i pennelli.

Ieri mi sono avvicinato ad Amedeo e gli ho detto:

– Ciao, mi chiamo Samir.

Io e Amedeo siamo andati a fare due passi. Siamo arrivati fino alla stazione, poi abbiamo fatto i viali.

– Cos’è quella? Mi chiede.

– La stazione.

– Ah, bene. Mi risponde. È pronta la cena? Aggiunge.

– È presto per la cena, Amedeo.

– Ci sono tante macchine oggi. Hai visto quante macchine? Cosa ci fanno tutte queste macchine qui?

– È solo gente che va al lavoro, o a fare la spesa. È sempre così.

– La gente mi ha stufato. Torniamo alla panchina.

– È pronta la cena? Chiede quando ci sediamo sulla panchina.

– È ancora presto.

Amedeo è stata la prima persona che ho conosciuto a Ravenna. Siamo diventati buoni amici. Abbiamo la stessa età. Due bravi vecchietti. Amedeo non mi riconosce più. Non riconosce più i suoi figli. Non riconosce più sua moglie. Ogni mattina Amedeo rinasce, come se non fosse mai esistito niente prima. Da tre anni ha l’Alzheimer. È una malattia tremenda, ne avevo sentito parlare, ma finché non ti capita la sventura di conoscere una persona che ce l’ha non puoi capire che inferno sia. Camminavamo spesso assieme io e Amedeo. Era un grande camminatore. Lo è ancora in realtà, il corpo non è affatto debilitato dalla malattia, però è pericoloso perché non riconosce i luoghi, le strade. Si perde. Una volta lo ha riportato a casa la polizia che lo ha trovato in stato confusionale che si aggirava per via Cilla.

Come ci era arrivato fin là?

Quel giorno ci siamo presi tutti molta paura.

Mi piace passeggiare con lui, mi è sempre piaciuto, ma ora mi si spezza ogni volta il cuore. Parlare con lui è come scrivere sulla sabbia, le onde cancellano tutto. C’è solo una cosa che è rimasta nella sua memoria: la musica. Quando si siede davanti al pianoforte suona il jazz, i brani che aveva imparato da ragazzo… Autumn leaves, My funny Valentine, Fly me to the moon e le canta: “Na, na, na, na”. Ricorda le melodie, ma non le parole. Che grande mistero è la vita.

Quando sono arrivato a Ravenna e non parlavo ancora italiano lui è stato il primo italiano con cui ho fatto amicizia. Per me la lingua italiana era ancora una melodia senza parole, proprio come quelle canzoni. Mi ha aiutato a orientarmi per la città. Non trovavo mai i posti che stavo cercando. La stazione, il centro per l’impiego, il Conad per fare la spesa. “Dritto”, ho imparato a dire, mi confondevo sempre con “dormito” e ogni volta scoppiavamo a ridere. Lui è stato la mia mappa di Ravenna, e ora io sono la sua. Ora è lui lo straniero che ogni mattina arriva in città come se non ci fosse mai stato prima e io gliela mostro, con le stesse parole che lui aveva usato per me. Lo porto a Sant’Agata Maggiore, davanti al liceo dove studiava da ragazzo, davanti agli uffici della Olivetti dove lavorava. Dicono che mostrare i luoghi legati ai ricordi possa aiutare i malati di Alzheimer. Lo spero. Non so se conta, ma almeno sembra più sereno, e alla fine, è questa l’unica cosa che importa: non avere paura. Quando il mondo attorno a te è irriconoscibile si ha una paura tremenda. Non so se assomigli o meno alla paura che avevo io quando sono arrivato. Non posso saperlo. Ero terrorizzato. Non capivo le cose che mi dicevano, non capivo perché certe cose andassero fatte in un modo anziché nel modo in cui ero abituato a farle io. Mi sentivo in una bolla e Amedeo mi ha aiutato ad uscirne. Gli sto solo restituendo quello che ho avuto.

– Ciao, mi chiamo Samir – gli dico – Andiamo a fare due passi.

– Cos’è quella? Mi chiede.

– La stazione.

– Ma guarda, la stazione, qui?

– Sì Amedeo, è sempre stata qui.

– Chi è tutta questa gente in macchina? Cosa fanno?

– Niente di particolare, vanno a lavoro, tornano a casa. Tutto normale.

– Torniamo a casa. È pronta la cena?

– È ancora presto Amedeo, è ancora presto.

Amedeo è morto una mattina di autunno. A casa sua. Nel suo letto. Nel sonno.

Al suo funerale non c’era nessuno. Nemmeno Garibaldi alla fine si era fatto vedere.

Non aveva parenti Amedeo, o se li aveva lo avevano dimenticato.

Solo gli alieni si ricordavano sempre di lui.

Però tutti notarono quel vuoto sulla panchina. All’inizio avranno pensato che forse era per il freddo. Ma poi passavano i giorni, e a qualcuno gli venne il dubbio.

Non gli avevano mai parlato, ma erano abituati a vederlo, e non vederlo più gli ricordava che tutto finisce. Anche la vita. Soprattutto la vita.

Nessuno gli aveva voluto bene in vita, quanto gliene voleva ora che con c’era più.

Senza di lui niente era più la stessa cosa. Non c’era nessuno a odorare il profumo del pane, a salutare i passanti, a guardare male i turisti che si perdevano.

Il mondo continuava a succedere, ma non c’erano più testimoni.

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