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Deon Meyer anteprima. L’ultima caccia

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Maestro indiscusso del thriller di origine sudafricana Deon Meyer torna in Italia per i tipi di Edizioni e/o con un grande capolavoro ambientato nella sua terra; L’ultima caccia è un racconto potente e carico di critica sociale e potenza storica, in bilico tra razzismo, crisi identitaria del popolo sudafricano e speranza nell’eredità di Nelson Mandela. A Città del Capo la polizia non lavora sempre alla perfezione, per questa ragione il caso della scomparsa di un uomo a bordo del treno più lussuoso del mondo che attraversava il deserto del Karoo attira l’attenzione dell’unico investigatore capace della capitale sudafricana, Bennie Griessel. Accompagnato da Vaughn Cupido e dalla irriducibile colonnello Mbali Kaleni l’ispettore Griessel dovrà risolvere un caso che affoga nel sangue degli innocenti e nella corruzione delle alte sfere politiche e burocratiche. Con uno stile evocativo ma elettrico Deon Meyer confeziona il thriller definitivo.

Cristiano Saccoccia

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Lo strano rapporto di Daniel Darret con Madame Lecompte iniziò in maniera violenta. E così sarebbe terminato. Era sdraiato a letto nel caldo e nell’umidità di agosto, senza riuscire a dormire, la finestra spalancata. Place Camille Pelletan era un forno, l’aria soffocante. A mezzanotte e mezzo i demoni del suo passato continuavano a tormentarlo tenendolo sveglio. Si infilò pantaloncini, T-shirt e le Nike nere e volò giù per le tre rampe di scale. In piazza, la gatta era appollaiata sul tettuccio della Renault vecchia e sporca del vicino. Lo sguardo che si scambiarono fu quello di due cospiratori: Noi, irrequiete creature della notte. Quella gattaccia maledetta. Wackett. Chiamata così dal figlio del vicino quando era un marmocchio di tre anni, chissà

perché. Seguì il solito tragitto oltre la Flèche Saint-Michel. La piazza della basilica, che di giorno brulicava di attività per il mercato, era deserta. Superò i binari e la strada a due corsie, avvicinandosi al bordo dell’acqua – aveva bisogno dell’aria fresca del fiume. Poi proseguì a passo svelto verso nord sul lungofiume della rive gauche. Alla sua sinistra, la vecchia Bordeaux rimuginava nel silenzio della notte, simile un animale addormentato. Allo Skate Park Colbert un adolescente solitario faceva avanti e indietro sullo skateboard; per qualche minuto si sentì soltanto il rumore delle ruote sulle pareti in cemento e le piattaforme in legno. Si chiese cosa tenesse sveglio il ragazzo a quell’ora di notte. Attraversò la Garonna sul nuovo ponte Jacques Chaban-

Delmas, il prodigio di ingegneria, e giunto sulla riva destra svoltò a sud. Per un po’ sentì sul viso la brezza fresca che si alzava dal fiume scuro. I pensieri erano rivolti al lavoro dell’indomani, alle sue modeste responsabilità mentre Monsieur e Madame Lefèvre erano in vacanza ad Arcachon. All’inizio non si accorse della donna alta tra le ombre del Parc aux Angéliques. Solo quando lei si lasciò sfuggire un gemito l’attenzione di lui si spostò nella sua direzione. Fu allora che avvertì la paura in quella voce, e vide la donna e i fantasmi sfrecciare tra gli alberi. Subito, d’istinto, si lanciò verso di lei. La inseguivano in cinque. Erano forti, agili, snelli, uno con una mazza da baseball. Li sentiva deridere la donna, le grida eccitate simili ai latrati di un branco di cani selvatici. Due erano vicinissimi a prenderla. Erano così concentrati che non si accorsero di lui. Uno gridò: «Girafe!». Daniel capì: l’andatura della donna era impacciata come quella di una giraffa. Udiva gli altri gridare. L’uomo in testa scattò in avanti e si tuffò, afferrando con le mani le caviglie della donna, che cadde in silenzio sull’erba, goffa e maldestra. L’uomo la tirò per i capelli. «No!» gridò Daniel.

Fu un riflesso, un atto istintivo, e in quell’istante vide il futuro immediato, le conseguenze di ciòche stava per accadere. Sapeva che si sarebbe esposto a un rischio enorme. Lì, in quel momento. E dopo. Gli inseguitori si guardarono intorno, lo videro. Uno sfoderò un coltello, la lama balenò nella pozza di luce dei lampioni su quai des Queyries. Quello con la mazza da baseball aveva spalle larghe e braccia muscolose coperte di tatuaggi – serpenti neri che si avvolgevano in spire. Le armi erano la prova che quell’incontro non era casuale. Daniel ricordava il putiferio che si era scatenato in TV e sui giornali, la frustrazione della polizia per i rapinatori del fiume, che negli ultimi tempi aggredivano i festaioli ubriachi di ritorno a casa a notte fonda. Si disposero a semicerchio. Erano giovani, potevano avere a malapena vent’anni, sicuri di sé. Daniel ricordava, di quell’età, la feroce, spesso immotivata volontà di affermazione, la pressione del branco, e capì che l’avrebbero attaccato tutti insieme. Sentì il peso dei suoi anni, della memoria muscolare che il suo corpo aveva perduto, e che stava per contrapporre alla violenza sul punto di esplodere. Uno dei ragazzi lanciò un grido di battaglia. Un suono primitivo che incitò all’azione. Daniel sentì la scarica di adrenalina. Colpì per primo il più grosso, quello coi tatuaggi. Ma non era abbastanza veloce, i colpi mancavano di potenza o slancio.

Fulmineo, il tizio col coltello affondò la lama – Daniel fu troppo lento a scattare all’indietro e il pugnale gli lacerò la pelle all’altezza del torace. Poi sentì un pugno alla gola, un altro sullo zigomo, colpi tosti. Fu scosso da un brivido, barcollò. Sarebbe morto lì, quella notte. Braccia di Serpe alzò la mazza da baseball, gli altri indietreggiarono per fargli spazio. Con la forza della disperazione Daniel si lanciò in avanti, lo colpì alla tempia, un pugno micidiale e ben assestato. Ci fu un suono cavernoso, nauseante, come di un’anguria che si spappoli a terra. Braccia di Serpe crollò al suolo. Un altro raccolse la mazza. Daniel roteò su un piede e con la mano destra bloccò il tizio col coltello – di nuovo fu troppo lento: la lama gli penetrò a fondo nel palmo. Provò ancora, afferrando l’uomo al polso con la sinistra e tirandolo a sé, poi gli schiantò il palmo destro dritto sul naso, colpendo verso l’alto. Lanciatore di Coltelli barcollò, poi cadde gemendo all’indietro. Daniel avvertiva una sensazione di caldo, il sangue gli grondava dalla mano e dalla ferita al petto. Due gli saltarono sulla schiena. Lui si lanciò all’indietro e ne sbatté uno contro il tronco di un albero, schiacciandolo con tutto il suo peso. Sentì le costole dell’uomo spezzarsi, poi la stretta delle braccia attorno al collo che si allentava, ma il secondo continuava a colpirlo da dietro, un pugno sull’orecchio, un altro sul collo. In quel momento il quinto della banda,

la faccia barbuta stravolta dall’odio e dalla rabbia, gli si avventò contro con la mazza. Daniel si girò, cercando di usare il tizio avvinghiato alle spalle come scudo. Non funzionò. La mazza lo colpì sul

muscolo della spalla destra rimbalzandogli sull’orecchio. Il sangue iniziò a colargli anche sul collo. Fu allora che sentì qualcosa esplodere dentro di lui, una rabbia che si scrollava di dosso la ruggine, la resistenza di anni, i freni e le barriere che si era imposto per così tanto tempo. Afferrò la mazza, strappandola di mano al barbuto – e negli occhi del suo aggressore vide lo shock e la paura per la rapidità della mossa. Lo colpì alla testa e l’uomo cadde a terra. Poi, con un gesto secco, spinse all’indietro il manico della mazza, colpendo alla gola il tizio alle spalle – la stretta soffocante intorno al collo si allentò. Si girò su se stesso, vide l’uomo portare il braccio al viso per

proteggersi. Daniel fece roteare la mazza e gli spezzò radio e ulna, un grido acuto e stridulo che lacerò la notte. Sentì i passi dietro di lui, si girò giusto in tempo per vedere Lanciatore di Coltelli – il viso insanguinato, gli occhi stravolti, la lama che si avvicinava dal basso. Balzò all’indietro e colpì,

un unico, vigoroso movimento: con la punta della mazza centrò la mano che teneva il coltello, e l’arma volò lontano cadendo sull’erba. Poi avanzò di un passo e piantò la mazza nello stomaco dell’uomo, di nuovo si girò di scatto – ma non era rimasto più nessuno. Doveva andarsene. Ci sarebbero state conseguenze – alcuni degli aggressori erano gravemente feriti. Si avvicinò alla donna. Seduta per terra, lo guardava fisso. Daniel si rese conto che era più vecchia di quanto pensasse. Aveva un viso insolito, nella forma e nell’espressione, e in quel momento i suoi strani lineamenti erano paralizzati dal terrore, come stregati. «Venga» le disse, porgendole la mano destra per aiutarla a rialzarsi, poi si accorse del sangue che colava abbondante dal palmo. Si passò la mazza da una mano all’altra, allungò la sinistra alla donna. Non sapeva se l’avrebbe presa era un uomo grosso e nero, con mani, faccia e vestiti sporchi di sangue, in un parco nel buio della notte. La donna gli strinse la mano, e lui l’aiutò a tirarsi in piedi. Lei si fermò, stordita.

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