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Willy Vlautin anteprima. La notte arriva sempre

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Dall’acclamato autore di Motel Life (Jimenez 2020), Willy Vlautin, arriva in Italia un altro capolavoro sempre per i tipi di Jimenez Edizioni, ovvero La notte arriva sempre nella puntuale traduzione di Gianluca Tastini.

Vlautin ha una scrittura limpida e malinconica venata da un’aspra critica sociale e violenza che serve a ritrarre l’America, sospesa nell’essere la terra in cui i sogni si avverano e il campo minato delle certezze della working class. Ne La notte arriva sempre c’è una complessa storia familiare ricca di rimandi a segreti inenarrabili che verranno man mano rivelati nel susseguirsi di plot-twist e archi narrativi perfettamente calibrati. In questo thriller, che rispetto ai lavori di altri autori non presenta volgarità e violenze gratuite, seguiamo il contro-canto dell’autodeterminazione di Lynette, protagonista femminile costruita con sapienza da Vlautin poiché in essa brillano non solo valori femministi ma anche quelli socio-economici del ceto medio-basso dell’America, in particolare di Portland (dove il romanzo è ambientato) splendida città della west coast soffocata dalla speculazione immobiliare e dalla criminalità.

Infatti il turning point del romanzo non è la disastrata vita della famiglia di Lynette, una madre gravemente obesa e incosciente e un fratello con deficit mentali particolarmente problematici, ma l’inarrestabile crisi finanziaria che si riflette nel mercato degli immobili e che va a strozzare il futuro di Lynette già segnata da un passato difficilissimo che le impedisce di costruire un futuro stabile.

Da questo conflitto, a cui si aggiunge il riaffiorare di personaggi, ricordi ed emozioni laceranti, il romanzo prende vita tramite una tempesta di adrenalina e scelte sbagliate; tutto ciò per recuperare abbastanza denaro in precedenza sperperato da sua madre. Nella notte conosciamo un’altra Lynette, non solo la lavoratrice indefessa che si prende cura del fratello malato, ma una donna determinata e ossessionata dalla volontà di sistemare le cose con ogni mezzo possibile. Dopo il crepuscolo Lynette è spietata, incontrollabile o come si dice “una scheggia impazzita”, che entra in contatto nel mondo del sesso a pagamento, dei ladri, della droga e molto altro. In questo thriller nostalgico e dolente Vlautin infonde una grande lezione di vita che dovremmo seguire tutti, lottare per i sogni di una famiglia è importante, ma a volte ricordarsi di sé stessi è necessario. Obbligatorio.

Cristiano Saccoccia

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“Kenny l’aveva afferrata per le caviglie e la stava tirando giù dal letto. Un piccolo lume rosso sul comò era l’unica luce nella stanza, e lui era sopra di lei, con la sua maglietta di Superman e i pantaloni del pigiama. Era inverno e una stufetta portatile piazzata al centro della stanza rilasciava poco calore. Il suo fiato formava piccole nuvole che scomparivano subito. Lynette si svegliò di soprassalto e guardò la sveglia poggiata sul comodino: le tre e mezzo di notte. «Devo dormire un altro quarto d’ora, perciò non toccarmi e non dire niente fino a quel momento». Aveva trent’anni e si alzò dal letto con la sua felpa blu da bambina e i calzettoni di lana,spense la luce sul comò e tornò sotto le coperte. Al buio, il respiro di lui divenne più veloce e rumoroso. «Tornatene di sopra» gli urlò lei. Lui cominciò a piagnucolare. «Per favore» lo implorò, ma lui non smetteva, anzi si lamentava sempre più forte, quindi lei accese la luce accanto alla sveglia sul comodino e lo guardò. «Gesù, adesso non metterti a piangere. È ancora presto e io sono esausta e tu sai che divento cattiva quando sono esausta. Eppure ogni mattina vieni quaggiù pur sapendo che non devi farlo. Ogni mattina la stessa storia».

Lui era rosso in volto e aveva gli occhi pieni di lacrime. «Andiamo, basta. Sono troppo stanca per sentirti piangere. Fammi dormire». Infilò la testa sotto il lenzuolo, le due coperte e il piumone. Da lì sotto disse: «Le regole le conosci. Devi aspettare che finisca di suonare la sveglia. Questa è la regola. Quando l’allarme finisce, allora puoi scendere. Prima no. Te l’ho detto mille volte. Aspetta sopra le scale. Aspetta finché senti l’allarme. Ne abbiamo parlato un sacco di volte. Non te lo ricordi?». Suo fratello scosse il capo. «Sì che te lo ricordi. Lo capisco da come respiri». Kenny scosse il capo ma iniziò a sorridere. Le afferrò una gamba attraverso le coperte. Lei tirò le coperte. «Gesù, va bene, hai vinto. Ma mi alzo solo se ti lavi i denti». Lui scosse il capo. «Hai un fiato che potrebbe ammazzare qualcuno. Lo sento pure con questo freddo. Mettiti la tuta pulita che ti ho preparato, lavati i denti e lascia che mi prepari per andare al lavoro. Okay?». Lui scosse il capo. «Tra cinque secondi mi arrabbio di nuovo». Gli indicò le scale e finalmente suo fratello si mosse. Lei rimase a letto e lo osservò allontanarsi. Aveva trentadue anni e continuava a ingrassare di anno in anno. Il suo corpo era diventato una pera. Era alto quasi un metro e ottanta e dondolava quando camminava. Aveva radi capelli castani e la pelata sul cocuzzolo si stava allargando. Una volta al mese aveva un attacco epilettico e non parlava, a parte dei suoni che somigliavano a parole. I medici dicevano che aveva il cervello di un bambino di tre anni. Certe volte sembravano pochi e certe altre troppi. Lui salì per le scale e lei scese dal letto. Le fondamenta della casa erano state gettate nel 1922 utilizzando un calcestruzzo scadente. […] Suo fratello era seduto sul letto con indosso pantaloni e felpa rossi coordinati dei Portland Trail Blazers.

«Non riesci a dormire?» domandò Lynette. La madre li guardò dal divano. Era sotto una coperta elettrica leopardata. «Mi dimentico sempre quanto presto vi svegliate». Si sporse verso il tavolino, trovò l’accendino e le sigarette e se ne accese una restando sdraiata. «A che ora lo riporti a casa?». «Esco da scuola alle due. Arrivo qui alle due un quarto e poi ho il turno alle tre e mezzo. Ho chiamato Sally ma oggi non può occuparsi di lui. Penso che lo chiuderò in camera con un film. Resterà da solo per meno di due ore se tu torni a casa subito dopo che hai finito». Sua madre tossì. «Mi sa che oggi non vado al lavoro». «Stai male?». Lei annuì e un filo di fumo le uscì dalla bocca. «Allora lo tieni tu». Sua madre scosse il capo. «Naa… Magari alla fine ci vado. Era solo un desiderio». Poggiò la sigaretta su un posacenere, si alzò e disse: «Vieni qui, Superman». Diede un colpetto sul divano e andò da lei. «Fa’ il bravo, oggi. Fa’ quello che ti dice tua sorella». Lo baciò sulla fronte e poi tornò a stendersi sul divano. Lynette chiuse il portone e,sotto il portico, tirò la zip del suo giaccone e di quello di Kenny. La vecchia casa alle loro spalle era rivestita di amianto grigio e le finestre a un solo vetro erano quelle originali ed erano pitturate di bianco. Erano novanta metri quadrati e dalla parte della strada c’era un muro di cemento che bloccava la vista e riparava dai rumori della Interstate 5. Era gennaio, pioveva e c’erano cinque gradi quando Lynette e suo fratello scesero i gradini del portico e si avviarono verso la Nissan Sentra del 1992 color argento. Lei sbloccò la portiera del lato passeggero e Kenny entrò in macchina. L’auto partì al secondo tentativo. Il riscaldamento non funzionava da un anno e il loro respiro appannava i finestrini all’interno della macchina. Guidò con una mano sul volante e con l’altra teneva uno straccio per togliere la condensa dal parabrezza. «Sta passando una macchina rossa» disse Lynette a suo fratello senza troppa convinzione. «La vedi?». Kenny sorrise e la indicò. Lei gli strizzò un braccio con una mano. «Forse vedere di buon’ora una macchina del tuo colore preferito significa che avrai un giorno fortunato». La radio suonava, la pioggia cadeva, e attraversarono il ponte Fremont nel buio della notte. Kenny guardava le luci sfocate di Portland oltre il finestrino. Lynette era appoggiata alla portiera e sospirava.”

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