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“Scrivere rappresenta per me una vera e propria catarsi.” Intervista a Vincenzo Fiore

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Il fanatico è incorruttibile, per la sua verità sarebbe disposto ad uccidere e a farsi uccidere. In entrambi i casi, sia egli tiranno o martire, è un mostro. Gli esseri più pericolosi sono quelli che hanno sofferto per la loro convinzione, i grandi persecutori si reclutano tra i martiri a cui non è stata tagliata la testa. In ogni uomo «sonnecchia un profeta» e ogni qualvolta che quest’ultimo si risveglia, compare un nuovo male nel mondo. Ogni uomo, «dagli spazzini agli snob», prodiga la sua generosità criminale dispensando ricette di felicità. L’abbondanza di queste soluzioni è solo un’ennesima prova della loro futilità. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, scrive Cioran, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Vivere però significa ingannarsi sulle proprie dimensioni. Chi mai, si chiede retoricamente il filosofo, avendo la visione della propria nullità si ergerebbe a salvatore? Tutti dovrebbero andare a lezione dai sofisti antichi per apprendere l’arte del relativismo.

Vincenzo Fiore

da Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia, Nulla Die, 2018, p. 103.

Vincenzo Fiore, laureatosi e specializzatosi in filosofia presso l’Università di Salerno, è autore di saggi e membro del Progetto di ricerca internazionale dedicato a Emil Cioran. Come giornalista scrive per le pagine culturali di Il Quotidiano del Sud e Il Corriere dell’Irpinia e collabora con varie riviste. È inoltre autore di romanzi.

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Nel tuo più recente saggio intitolato Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia (Nulla Die 2018), ti occupi del filosofo romeno. Come è nata la tua passione per l’opera cioraniana?

Ho scoperto Cioran quando ero ancora uno studente liceale. Avevo trascorso un anno intero a leggere Nietzsche, che mi aveva aiutato a sopportare un grande dolore. Un giorno mi sono imbattuto casualmente in un aforisma del pensatore romeno, e ne sono rimasto letteralmente folgorato. Nel giro di poco tempo acquistai tutti i suoi testi. La lettura dello scettico dei Carpazi è stata la migliore terapia che potessi scoprire.

La morte è argomento ricorrente in Cioran, entrando a fare parte della quotidianità dello stesso fin da bambino. Il filosofo, infatti, in tenera età è solito conversare con il becchino del cimitero confinante con l’orto della sua casa. La morte diverrà poi pensiero ossessivo nel giovane Cioran. In che termini questo filosofo tratta della morte e della vita?

Già nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, Cioran scrive di avere la strana sensazione di essere diventato «uno specialista nel problema della morte». Per il giovane filosofo era la sola e unica questione fondamentale. Discutere di altro avrebbe significato perdere tempo. È proprio grazie all’idea della morte, egli sosteneva, se possiamo dar gusto agli istanti, essa è «l’aroma dell’esistenza».

Nell’opera Un apolide metafisico, Cioran scrive: “Anche un animale può essere più profondo di un filosofo, voglio dire avere un senso della vita più profondo”. Questa affermazione mi ha colpito particolarmente. Come deve essere intesa?

L’uomo è l’unico essere che cerca di spiegare la propria esistenza, ovvero l’unico essere che cerca di dare un senso a qualcosa che non ne ha. I grandi interrogativi della vita non hanno niente a che vedere con la cultura, perché il punto di partenza è il vissuto, non la teoria. Se ci si ritrovasse, ad esempio, a che fare con il problema della morte, in ogni suo aspetto, non ci aiuterebbe l’avere consultato prima un libro di biologia o il catechismo. Si tratta soltanto di una problematica privata, spiega Cioran, ed è dunque riservata a un sapere senza conoscenze.

Cioran si interessa ai santi, uomini e donne fuori dall’ordinario. Cosa indaga nell’ambito delle loro vite e quale rapporto ha il filosofo con la fede?

Nel leggere le vite dei santi e dei mistici, Cioran non era tanto interessato a studiare nuove indicazioni su precetti morali, ma egli desiderava semplicemente qualcosa per «sfuggire all’opprimente banalità del vero». Ne Il crepuscolo dei pensieri, opera ancora non tradotta in italiano, egli arriva a sostenere che la passione per la santità non è altro che un modo più salutare per sostituire l’alcool. È difficile sintetizzare in qualche battuta il complesso rapporto di Cioran con la fede. Si è imposto un filone interpretativo che definisce il pensatore romeno un «teologo ateo». Come scriveva Pierre Reverdy: «Ci sono talora atei di un’asprezza feroce i quali, tutto sommato, si interessano di Dio più di certi credenti frivoli e leggeri».

La musica nella vita di Cioran ha un ruolo importantissimo. Si legge a pag. 43 del libro: “È interessante notare come Cioran utilizzi il paragone con la musica per ironizzare, screditare, attaccare sia la filosofia che la religione”. Potresti farci un esempio?

Solo Bach è l’alibi di Dio per questo universo fallito, afferma a più riprese Cioran. Con la stessa ironia, il filosofo si chiede perché mai frequentare Platone, quando un sassofono può farci intravedere altrettanto bene un altro mondo? Qualche anno dopo, in un’intervista, farà un passo indietro su Platone, ma non su Dio.

Secondo Cioran la libertà è un giogo troppo pesante per il collo dell’uomo e non tutti sono in grado di sopportarla. È possibile essere uomini liberi oggi?

Non a caso Cioran ricordava che la plebe rimpianse persino Nerone, esempio che potrebbe essere esteso a qualsiasi dittatore contemporaneo. La libertà in senso assoluto è un’astrazione, un’idea limite verso cui si può soltanto tendere. Nessuno è realmente libero, anche per il solo fatto di essere nati. Tuttavia, chi come noi è nato nella parte privilegiata del mondo, è solito abusare di questa parola.

Si può dire con certezza, scrive il pensatore romeno, che il XXI secolo guarderà a Hitler e a Stalin come a due chierichetti”. Questa frase chiude il capitolo che analizza il rapporto tra Cioran e le ideologie. Vorresti spiegarcela?

Come gli déi dovettero abbandonare il monte Olimpo per dare spazio al dittatore celeste, allo stesso modo la morte di Dio ha creato un vuoto che è stato colmato dalle ideologie. La fine delle grandi narrazioni del Novecento non apre però, secondo Cioran, a un disincanto del mondo ma, come la storia insegna, ogni fede viene rimpiazzata sempre da un’altra altrettanto o addirittura peggiore. Il sentimento religioso è l’ineliminabile nell’uomo, pertanto bisogna aspettare soltanto in nome di quale sarà il nuovo altare su cui verrà versato altro sangue.

Per Cioran la scrittura è soltanto una pratica auto-terapeutica, utilizzata per primo da Cicerone. Scrive ne Un apolide metafisico: “Scrivere mi ha aiutato a passare da un anno all’altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate”. Cosa rappresenta per te la scrittura, ricordando che sei autore di saggi e anche di romanzi?

Scrivere – ma anche leggere – rappresenta per me una vera e propria catarsi. Significa incanalare il dolore verso l’arte, inchiodarlo sul foglio con la penna per poi liberarsene. Non ho mai scritto una riga in un momento di pace o di serenità.

L’ironia è una componente forte dell’opera cioraniana. A pag. 148 del saggio si legge: “Si registrano testimonianze di persone che hanno subito una vera e propria catarsi filosofica grazie alla lettura delle opere del pensatore romeno, è il caso di una ragazza libanese che sotto i bombardamenti di Beirut leggeva Cioran perché, in quella situazione disastrosa, ne trovava tonico lo humor…” Rispetto al racconto di questa situazione vorrei chiedere se l’ironia e ancor più l’auto-ironia siano forse valori in via di estinzione nella nostra società attuale, oppure no. Come stanno le cose?

Nella società dell’immagine e della realtà virtuale dove tutto deve sembrare obbligatoriamente perfetto, molti si sforzano di prendersi sul serio, cercano di trasmettere agli altri una proiezione di loro stessi che in realtà non esiste. Persino una colazione o una chiacchierata con degli amici, attraverso la logica dell’uomo-social, si trasforma in un’esibizione, in un evento. L’ironico, al contrario, è colui che ha vissuto un desiderio d’ingenuità deluso, colui che prova in segreto l’amarezza di non essersi illuso come tutti gli altri. L’ironia fruga nelle nostre miserie, ci mostra nella nostra nudità, svela le nostre piccolezze. L’ironia è uno specchio, per chi non ha timore di mostrare i propri caratteri essenziali, che sono poi i punti che ci distinguono dagli altri. È evidente che in questo scenario si corre verso l’estinzione dell’ironia. Occorre diffidare da chi diffida dall’ironia.

Su cosa stai lavorando in questo periodo, puoi darci un’anticipazione?

Mi sto occupando ancora di Cioran. Sto lavorando alla traduzione di alcune interviste e lettere ancora inedite nel nostro Paese. Tuttavia, dopo qualche anno di inattività, sento nuovamente il bisogno di scrivere. Mi riferisco alla narrativa, naturalmente.

L’ultima domanda è una domanda poetica che ha a che fare con il tema di questa rubrica di parole e immagini e cioè il cielo. Ti chiedo: com’è il cielo oggi sopra Vincenzo Fiore?

Vedo un cielo pronto a precipitare. Ma la fisica non ci insegna forse che quando l’universo collasserà su se stesso, sarà pronto a rinascere di nuovo?

(intervista a cura di Silvia Castellani)

Fotografia di Silvia Castellani
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