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Alcune impressioni su "Sogni e Favole". Intervista a Emanuele Trevi

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Sogni e favole. Il sipario di questo viaggio narrato si apre su un cineclub di Roma agli inizi degli anni 80. Il titolo, invece, è ripreso da una poesia di Pietro Metastasio del 1700. Tre personaggi, tre spiriti guida accompagnano il passo della voce narrante nel senso della vita, nel delirio dei sogni. In certi punti una strana nostalgia ti coglie perché Trevi sta scrivendo proprio a te, che stai leggendo. La follia, la genialità, la solitudine: questo è un mondo descritto con gli occhi di un antropologo urbano che nulla tralascia e anche i particolari dell’arredo utilizza per dare vita a una storia che commuove e fa riflettere riflettendoci. Cosa c’entrano il fotografo Arturo Patten, la poeta Amelia Rosselli, il critico Cesare Garboli con me, con noi, le loro vite dense, significative, estreme con la mia, la nostra, apparizione anonima, insignificante? Condividiamo la solitudine, l’effimero che intavola il pranzo collettivo, il tempo che ci devasta in silenzio: sfibrante processo di adattamento e apprendistato che ci rende al massimo capaci di descrivere una traiettoria più o meno dignitosa dal nulla di partenza al nulla di arrivo. È un romanzo in cui la letteratura è non solo testimonianza della vita dell’altro, ma soprattutto del mutamento che la vita dell’altro riesce a operare in noi, un po’ come nel Viaggio iniziatico, altro libro di Trevi, l’esempio dello stregone non si riverbera nella metafisica dei miti, e anzi, la cosmologia non assurge, insieme alla poetica e alla critica, a matematica del detto, è proprio il contrario: di queste tre vite noi ascoltiamo il carattere, la nitida personalità, la modalità di appartarsi nel proprio solitario viaggio che si trasfigura nelle opere e pure, e per lo più, di questi tre destini noi ascoltiamo il non detto, il non dicibile. È un romanzo-viaggio della transizione, dell’ascolto, dell’inaudibile: Metastasio o Garboli, tutti i morti finiscono per assomigliarsi. Sono evasi dal sogno, si sono risvegliati nella verità.

Aperto sul cinema il romanzo: il Cinema invece era un nastro di Moebius, un’immagine concreta dell’infinito che loro potevano percorrere senza mai tornare sui propri passi, senza mai guardare indietro. E di visioni e allucinate realtà. Di occhi interni che vanno ai ricordi e li portano alla luce del presente: il cosiddetto «grande critico» è una figura del passato, e se ne parla allo stesso modo in cui si potrebbe parlare di un ussaro, di un cocchiere, di un campanaro: figure di un tempo irrimediabilmente trascorso. Ricordi proiettati che imbastiscono la loro trama nell’attuale, a farsi torce e luci di cortesia nel camminare, camminiamo tutti su un precipizio, verso quel sipario su cui la luce costruisce le scene filmiche: il velo di maya dove si allungano le ombre finte della vita. Importante e vitale è ricordarsi, immaginarsi: fin da piccoli è proprio a questo che veniamo educati, a immaginarci, a costruire una versione narrativa di noi stessi che ci preservi dalla disperazione e dalla follia sempre in agguato. Volto di donna alla finestra nel vuoto che ne inghiottirà la vita, occhi chiari di fotografo che leggono sotto la superficie l’inconscia maestria di costruirsi le maschere: la maschera e il soggetto che la produce. Vediamo il processo attraverso cui l’uno crea l’altra, dunque vediamo la creazione dell’Io, parole che ritraggono gli ambienti di una casa e gli autori di un tempo: ritratti: e questo è esattamente il lavoro del ritratto: ricondurre i lineamenti, lungo una strada fatta di luci e ombre, alla loro identità essenziale, sanare la lacerazione del dissimile. Ha ragione lo psicoanalista Sergio Finzi a differenziare il profilo delle forme, che divide, che separa, rappresentante della topografia dell’inconscio, la figura di fronte, che unisce, come la fronte appunto, emblema dell’Es: questo sapeva fare il ritratto fotografico di Arturo, e la poesia di Amelia, e le parole di Garboli. Evidenziare e comunicare quell’incomunicabile istinto sottostante la maschera: ciò che in noi è davvero trascendente e imperturbabile, ciò che corrisponde davvero alla nostra natura profonda, alla nostra vocazione spirituale e musicale, se ne fotte di noi stessi come degli altri. E scrivo Arturo, Amelia, Cesare, uso il nome proprio a evidenziare proprio il rapporto di vicinanza che l’autore ha vissuto con i personaggi. Il lavoro di Trevi è di un regista che colloca e sa posizionare gli attori nella giusta misura tra il loro essere umani e allo stesso tempo personaggi di finzione. Rosselli, Patten, Garboli sono anche personaggi di finzione, per un certo verso, come lo siamo tutti. Il desiderio che anima il loro viaggio, la morte che hanno voluto abbracciare, sono forse questi il tratto che li caratterizza come singolarità umane che hanno fatto della loro vita una Zona in cui le regole comuni dismettono la loro validità. Libro di ombre benevole, lettura che chiarisce le nostre disarmonie, scrittura per presenti invisibili, direbbe l’antropologo teatrale e regista Eugenio Barba. Libro che contiene anche suggestioni visive: foto, dipinti, copertine. Macchie di colore e punti. Smaterializzare l’io e ammonimento: tralasciamo come tanti irresponsabili l’unica impresa che avrebbe un valore significativo, che è quella di scardinare l’ego, di strapparci dalla trappola di noi stessi e della nostra volontà, costi quel che costi. La voce di Trevi, il suo corpo, la sua presenza si fa viva attraverso il corpo degli altri, dell’Altro in carne e ossa.

Un romanzo di corpi, certo; di anime, e di viaggi. Dove il viaggio è anche interiore, e i luoghi si fanno immateriali e osserviamo l’esteriore che diventa interiore e non solo il contrario, come nelle pitture e nelle foto che trascendono la persona-maschera, la fissità delle cose, e fanno scorgere il movimento sotto la superficie, il turbinio nel profondo essenziale. In effetti, il cinema, dove le immagini si muovono sulla fissità del bianco, è molto presente, si è già detto: luogo d’incontro con Arturo, ma anche fantasma psicoanalitico. In un sol colpo è come una freccia scagliata dal 1700 di Metastasio lungo tutto il Novecento fino a questo momento qui, in cui cerco di scriverne – è difficile scrivere di un romanzo che racconta un’esperienza personale capace di arrivare alla mente e al cuore di chi legge, con molta più densa semplicità di quanto stia facendo il sottoscritto provando a scriverne. Romanzo del movimento: come se, grazie al puro e semplice movimento, assieme alla circolazione si riattivasse quel senso narrativo dell’esistenza che è così importante per sopravvivere con un briciolo di senno, scrive Trevi. Movimento, in questo camminare che ricorda un po’ Bernhard, un po’ Gradiva, in cui l’inconscio è un cretino e non è foriero di bellezza e di poesia: nell’inconscio, a ben vedere, non c’è bellezza, non c’è poesia, anzi proprio la bellezza, per parafrasare Lacan, è quel limite, quel parapetto che può farci sporgere sul vuoto senza rischiare d’esserne risucchiati, una psicogeografia che fa risorgere i luoghi, li racconta, per istantanee, per schizzi, Roma, Parigi, la Sicilia, la Toscana: Roma è una città scenografica, una fontana inesauribile di vedute vertiginose e di incantesimi prospettici. Ma non c’è nulla che evochi in maniera così perfetta il teatro come quello spazio che l’architetto – Pietro da Cortona – tirò fuori dal nulla come un mago di una favola araba; si raccontano le case, le chiese, le cose. Le stanze dove gli oggetti immateriali parlano le storie di chi li ha vissuti: la casa di Marguerite Yourcenar (nella sesta appendice). Incontri. Viaggi per arrivare nel cuore del proprio desiderio. Il desiderio. Aleggia come un fantasma, pure lui. Mentre riscrivi le riflessioni camminando per le vie di Roma, luccichio di storia universale nelle pozzanghere, la pioggia tra le geometrie del passato: senza sapere come o quando, hai varcato la soglia della stanza dei desideri. Arturo è l’emblema di una realizzazione totale del proprio modo di essere: in quel passaggio in cui, a Emanuele (Trevi) rimprovera: tutto quello che fai è che tu ubbidisci!!! Tu pensi che la società ti dà ordini. È quest’altro fantasma. Questo essere agiti da. Un desiderio che deve lottare con il tempo che incalza e la malattia che stringe. E ecco la giostra di Piazza Navona, dove il tempo si materializza: il Grande Invisibile che si mostra, un moto circolare, qualcosa di gratuito e scintillante, senza meta, una specie di scherzo, ma uno scherzo di quelli che ci ridi e ci rimani pure male, cos’altro significa stare in groppa al cavallino, qualcuno che ci ha messo lì sopra e non siamo mai scesi, pensavamo di esserci lasciati l’infanzia alle spalle ma non facciamo che galoppare verso l’altra infanzia, quella vera, niente scorre via, tutto torna, gira e torna, op op op cavallino.

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Alcune domande all’autore

Gianluca Garrapa: l’idea di scrivere il libro di un altro a un certo punto mi è sembrata la maniera migliore di impiegare il mio tempo. Volevo tentare un ibrido fra il saggio letterario e la seduta spiritica: come mai ci racconti proprio Garboli, Patten e Rosselli, e cosa li unisce alla poesia di Metastasio?

Emanuele Trevi: I miei personaggi sono persone vere, e prima o poi mi si impongono, o meglio riaffiorano dalla dimenticanza, in modo abbastanza misterioso. Non c’è nulla che davvero li leghi tra loro o alla poesia di Metastasio, è solo la mia mente a creare connessioni verosimili.

G.G.: Scrivi che le epoche di mediocrità letteraria sono caratterizzate da una generale estraneità delle opere all’esistenza che le produce: quindi che rapporto c’è, o dovrebbe esserci, tra arte e vita?

E.T.: Considero l’arte una delle manifestazioni supreme della vita, sarebbe come chiedersi che rapporto c’è tra una montagna e la sua cima.

G.G.: Come lavora uno scrittore mettendo da parte l’ego e raccontando il mondo? Che mutazione c’è stata (perché il gioco ormai consiste esclusivamente in questo: tenere buona la gente a colpi di consenso narrativo e identificazione emotiva) a rendere tanto difficile percorsi illuminanti, ma anche forse crudeli, per carità, come quelli descritti nel libro?

E.T.: La vera mutazione consiste nell’invecchiare, il passaggio del tempo è una forma di illuminazione perpetua che scrivendo capita di decifrare.

G.G.: Secondo Emanuele Trevi, il personaggio narrante di Sogni e favole, c’è arte dopo la vita? Ma fintanto che siamo vivi e sognati, e fingiamo, come si può trasformare la memoria in un sogno narrato, in un romanzo?

E.T.: La memoria è già di per sé una grande romanziera ! Personalmente, a differenza di altri autori di auto-fiction, escludo molte cose, spezzetto molto, tendo idealmente al frammento.

G.G.: Parlando del grande critico Cesare Garboli, scrivi: le interviste più fedeli sono pura fiction. L’unica cosa importante è far dire alle persone ciò che, presumibilmente, avrebbero voluto dire in quel momento, ecco mi piacerebbe, se ti va, concludere questa intervista-recensione con alcune domande sulle abitudini dello scrittore Emanuele Trevi durante la stesura del libro, la tua vita quotidiana durante la stesura del romanzo: dove scrivevi, quando scrivevi, cosa fai tra una pausa dalla scrittura e l’altra?

E.T.: Boh io non ho una vita quotidiana, non ce l’ho mai avuta, ogni giorno mi invento un paio d’ore in cui scrivere, mi dà sicurezza riuscire a concentrarmi.

G.G.: In quali luoghi è nato il romanzo?

E.T.: Casa mia a Roma, l’isola di Naxos in Grecia, uno strano albergo tutto foderato di rosso a Parigi, un’infinità di treni dove scrivo benissimo!

G.G.: Scritto interamente al pc oppure anche a mano?

E.T.: Tutto pc, odio le penne ! Si rompono sempre. E poi io salvo tutto su dropbox.

G.G.: Durante la stesura del romanzo capitava di passeggiare in bici, in auto, a piedi e osservare alberi, scrutare edifici, finestre, affondare lo sguardo nel cielo, seguire le onde del suono e dell’acqua e trovare un’ispirazione per il romanzo?

E.T.: Camminare è fondamentale! Un’oretta di cammino e tutto diventa più facile.

G.G.: Fumavi o bevevi durante la stesura del suo romanzo?

E.T.: No, non bevo quasi mai, da giovane ero più vizioso, ora mi sono scocciato.

G.G.: Quanto pesavi?

E.T.: Ma che ne so ! Che domanda è ? Un’ottantina.

G.G.: Scrivevi dopo cena, prima di pranzo, quando?

E.T.: Quando capita, ma dopo cena non ci riesco più, magari leggo, ma scrivere non ce la faccio a meno che abbia una scadenza di lavoro.

G.G.: Come si potrebbe definire la scrittura di questo romanzo: di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo, della mente?

E.T.: Decisamente di spostamento (a piedi).

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