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José Ovejero anteprima. Fumo

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Da oggi nelle librerie l’ultimo romanzo di José Ovejero, Fumo, Voland, 2023, pp. 144, € 17,00. In una capanna nel cuore della foresta, una donna e un bambino vivono insieme come una strana eppur meravigliosa famiglia. Pur senza legami di sangue, si amano come se fossero l’uno la ragione di vita dell’altro. Tra di loro non ci sono grandi discorsi, ma ogni gesto, sguardo o abitudine condivisa racchiude un universo di significati. La loro unione è l’unica salvezza in una vita primitiva, dura e semplice in un mondo selvaggio e ostile, “dobbiamo sopravvivere per buona parte dell’inverno. Venti cartucce e un fucile.”

Il cibo scarseggia e il futuro è incerto, la civiltà e la tecnologia sono solo un ricordo del passato e comunque lontane: “Perfino gli aerei che a volte attraversano il cielo tracciano in silenzio le loro linee bianche sull’azzurro: l’aeroporto più vicino è a diverse centinaia di chilometri e perciò gli aerei volano a grande altezza”.

Con una scrittura tagliente, José Ovejero ci introduce in un futuro primordiale, dove la solitudine sembra essere la condanna di ogni essere umano. Ma in mezzo a tanta desolazione, emerge una luce di speranza: quella di una umanità capace di resistere alle avversità e di trovare la forza per andare avanti.

Carlo Tortarolo

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Contemplo un crepuscolo incendiato. Le nubi che hanno trascorso quasi tutta la giornata agganciate alle falde della montagna si sono via via sollevate e adesso galleggiano sui picchi con la pancia rosea, tingendo la neve con il loro riflesso. Il sole per noi è già tramontato, però la luce è più brillante di qualche ora fa. Brillano rossicce e giallastre anche le ultime foglie dei pioppi e delle querce. Abbasso gli occhi e scopro che il gatto sta guardando nella stessa direzione. Gli animali avranno il senso della bellezza? Proveranno emozione di fronte a un mare che si infrange contro la base di una scogliera, di fronte a un bosco invaso dalla bruma, di fronte a un cielo che sembra sul punto di fondersi in un manto di braci? Il bambino, accanto a noi, disegna figure nella polvere: non disegna mai animali o persone, alberi o case, e nemmeno nuvole o soli. I suoi scarabocchi sembrano riflettere un mondo di esseri unicellulari: ovali circondati da flagelli, forme affusolate da cui spuntano antenne, figure che potrebbero essere coralli o amebe. Accumula un disegno sopra l’altro, senza cancellare quello vecchio, come se si fagocitassero. Nel frattempo il cielo è passato dal rosa al rosso brace, i bordi delle nuvole sono lame incandescenti, però il fondo della vallata va sfumando, come se si immergesse nell’acqua torbida. Il bambino si è alzato in piedi. Chiude gli occhi per qualche secondo e li apre per un tempo simile, ripetendo di continuo l’operazione, e mi chiedo se si stia accertando che quando apre gli occhi il prodigio è ancora lì. Forse pensa che il mondo esista soltanto quando lui lo percepisce.

Ti piace?, gli chiedo. Lui annuisce, credo, e a volte penso che la nostra comunicazione vada oltre l’immediato, che in realtà parliamo di qualcosa di molto più ampio e significativo di ciò che le mie parole potrebbero tradurre. “Parliamo” ho scritto, come se davvero lui rispondesse con frasi più o meno imperfette. Poi continua a disegnare il suo mondo geometrico in cui non riesco a immaginare cosa ritrae o mostra. Forse niente. Tra quelle linee e ciò che lo circonda è possibile che non esista alcun rapporto. Non sembra nemmeno affezionarsi ad alcuna delle sue opere; non le esamina quando le finisce – se mai ha terminato qualcosa – le calpesta senza farvi attenzione, non gli importa se lo facciamo anche Miss Daisy o io. La gatta e il bambino non possono spiegarmi perché fanno quello che fanno, non forniscono motivazioni. Sono due scatole nere impossibili da aprire. Del resto, neanche io do loro molte spiegazioni. Conviviamo, in silenzio per la maggior parte del tempo. Facciamo ciò che dobbiamo fare; senza giustificarci. Senza mentire. Non riesco a immaginare una famiglia migliore.

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