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Lontano da Crum

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Nelle nostre vite, con un po’ di accortezza, siamo in grado di sfuggire a qualsiasi cosa. Col passare degli anni, con il sopraggiungere della maturità (o presunta tale) e dell’esperienza (o presunta tale), possiamo trasformarci in autentici camaleonti, sempre abili a ingannare, dissimulare, nasconderci.

C’è però una cosa dalla quale, nonostante tutti gli sforzi immaginati e immaginabili, non riusciamo proprio a staccarci: le nostre origini. E questo vale ancor di più quando, magari dopo un cambiamento radicale e pieno di fratture emotive, possiamo apparire distanti anni luce da ciò che in qualche modo ci ha prodotti: proprio in questo cambiamento, anzi, proprio nella necessità di affrancarsi che può sostanziarlo, infatti, risiede un legame inscindibile che non potremo mai spezzare. La nostra condizione sociale, o economica, o affettiva, con l’andare avanti, potrà anche essere diventata completamente altra, ma il punto di partenza, l’impronta risulterà incancellabile. A maggior ragione quando avremo fatto di tutto per eliminarne i colori, la forma. Anzi, soprattutto dopo tutti questi nostri tentativi.

Lo sa bene l’indimenticabile protagonista di “Lontano da Crum” di Lee Maynard (Mattioli 1885, pp.197, € 15). Lo sa fin da quando, orfano acquartierato in una sorta di capanno degli attrezzi in questa desolata landa del West Virginia, si affaccia al mondo con un po’ di coscienza di sé. Sa che tra quelle aspre colline solcate da un fiume sporco e traditore e piene di catapecchie, si nasconde la verità del suo destino. Un destino che il giovane va a cercare, un giorno dopo l’altro, combattendo la noia e l’indolenza di un posto dimenticato non solo da Dio, ma anche dai suoi simili, che evitano di fermarcisi oltre lo stretto necessario come fanno i professori della sua scuola. E lo fa con un’attitudine disordinata e selvaggia che un luogo del genere non può che accentuare, imbarcandosi in una lunga serie di avventure/disavventure da picaro provinciale e circondandosi di “compagni di gioco” che, in fondo come lui, reagiscono ad una quotidianità annichilente abbandonandosi soprattutto al proprio istinto. Un istinto sulla natura del quale nulla ci viene taciuto, anche quando la ferinità che lo permea assume tratti decisamente al di là del consentito.

Ed è proprio nella “scorrettezza” di queste descrizioni che risiede la magia della scrittura di Maynard, perché mai di fronte all’apparente oscenità di certe situazioni si ha l’impressione di un bozzetto manieristico fatto per solleticare le pruderie del (possibile) timido lettore. Al contrario, proprio in quelle righe si avverte con maggior soddisfazione il veemente carico di vita di questi personaggi, veri, solidissimi, in grado di prendersi la scena con la naturalezza del loro mancato contegno, della loro realtà essenziale e non cesellabile di “paesani nell’anima”. Sono ragazzi e ragazzi che non hanno nulla, che non hanno visto nulla. I loro, sono panorami tutti interiori, dove però la patina magica dell’immaginazione propria dei pari età “cittadini”, sembra non aver fatto breccia o, meglio, sembra essere stata soffiata via da un vento di ruvida consapevolezza. Quella tipica di coloro che si ritrovano, per una volontà superiore e non contestabile, a dover crescere in una realtà dura e asfittica, dove, a fronte anche del più erculeo sforzo della fantasia, è davvero difficile immaginare di volare alto. Il protagonista, che poi è lo stesso autore da giovane, sa di avere in questo senso delle carte da giocare. Sa che oltre la sua spessa corazza c’è qualcosa che può allontanarlo da una sorte che percepisce con chiarezza come decisamente grama. Ma sa anche che porre in atto uno scarto sentimentale, anzi, ideologico rispetto a quello che ha sempre vissuto non si risolverà in una banale liberazione obliante e in una conseguente elevazione, sublimazione di sé. Al contrario, come si accennava, egli sa che lo porterà ad istituire una perenne battaglia con i propri fantasmi, con le ombre del proprio passato, che non avrà fine e che, in qualche modo, lo priverà di una leggerezza, di un senso di appartenenza al territorio che, in qualche modo, i suoi amici continueranno ad avere. Ed è proprio dalla consapevolezza di questo sforzo, dalla razionalizzazione di questo autodeprivarsi di una propria identità, che scaturiscono alcuni dei momenti più struggenti del romanzo, intorno al quale fiorisce, è vero, una comicità costante nonostante la sua crudezza, ma che sempre conserva una forza e una tenerezza che solo i grandi libri, quelli scritti con la spada oltre che con la penna, sanno regalare.

Ne sentirete il battito di cuore indiavolato. Leggendolo, avvertirete tutto il calore del suo sangue. E, consumate le ultime battute, vi mancherà. Terribilmente.

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