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Rompere le regole. Creatività e cambiamento

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Che cos’hanno in comune un critico letterario, uno storico, un’anglista, un latinista, un attore e una filosofa? Questo solo per usare una definizione sommaria che ovviamente non esaurisce la complessità e la sfaccettatura dei loro saperi e delle loro competenze, perché Marco Belpoliti, Giovanni De Luna, Nadia Fusini, Nicola Gardini, Fabrizio Gifuni e Francesca Rigotti non sono solo questo e non sono sbrigativamente incasellabili; come non lo è la riflessione che avviano e stimolano.

Dunque che ci fanno insieme?

Discettano della tematica che dà il titolo al libro pubblicato in questi giorni da Utet (Rompere le regole. Creatività e cambiamento, pp. 131, euro 14,00), in cui sono contenuti, separatamente, i loro contributi. La separatezza è un fattore fondamentale perché discipline diverse concorrano a dare un’immagine del mondo che quanto più mantiene, e accetta, la distinzione del punto di vista, e la sua specificità, tanto più diventa motore di pensiero, pensiero rigoroso, rivelatore di spunti creativi che permettono l’evoluzione del ragionamento anche attraverso la rottura: la rottura delle regole, delle tradizioni non più vitali, la sfida impertinente.

Così Marco Belpoliti traccia una storia della resilienza, del suo significato e del suo cambiamento nel tempo, partendo dalla definizione della parola “stress” e approdando alla lettura dei capolavori di Primo Levi, di cui è attento studioso (si ricordino l’edizione critica delle Opere per Einaudi e il suo volume su Levi per Mondadori); tra i primi, Levi, ad usare il vocabolo “resilienza”, mettendolo in rapporto al tema della non riuscita. Non esistono superuomini e neppure super-resilienti, dice Belpoliti, e dunque “non si può non aggiungere che l’uomo che ha scritto queste righe così sagge e così resilienti non ha retto al dolore della vita e alla sua depressione, che lo tormentava sin da ragazzo- forse salvo proprio il periodo trascorso, suo malgrado, nel lager-, così si è ucciso una mattina di trentuno anni fa”

Giovanni De Luna ripercorre le tappe di quel “fenomeno planetario” che fu il ’68, prendendo in esame i mezzi di comunicazione di massa che l’hanno costruito e che ci permettono di conoscerlo: “L’immagine nuova, diversa, irrompe dagli strappi della storia, quando c’è conflitto. Quando si mette in discussione un regime, il primo a cambiare è il modo di vedere”: sono parole di Tano D’Amico, il fotografo che intuì quanto fossero mutati i tempi, e i codici, dal momento che “l’autorappresentazione del movimento coincideva con la rappresentazione che ne davano i fotografi”. Un momento storico, la prima rivolta interamente generazionale, su cui ancora oggi ci interroghiamo.

Nadia Fusini espone le caratteristiche innovative, e “sovversive”, del circolo di Bloomsbury, creato da Virginia e Vanessa Woolf, dove uomini e donne erano messi sullo stesso piano, lo stare assieme era centrale, e il formalismo veniva messo al bando a vantaggio della scoperta di una nuova dimensione dello spirito e del riconoscimento della singolarità di ciascuno, “perché, pensa Keynes, sopra oltre ogni altro bene, questo contava: la libertà- la libertà anche di mantenere la varietà delle tradizioni, la fantasia dell’esistenza, perché al di là delle conquiste economiche che si sarebbero realizzate, del benessere che si sarebbe raggiunto, la questione intorno alla quale si sarebbe giocato sul serio il senso della vita era la libertà“.

Nicola Gardini spiega il vocabolario classico della creatività- i significati di téchne (competenze che servono a svolgere un compito), mimesis (imitazione) e sofìa (nel senso di “ingegno” e “genialità”)- e la trasformazione semantica che questi concetti subirono nella riflessione degli antichi; una riflessione che permise alla classicità di affrancare infine l’immagine (eikon) dalla sua sudditanza all’idea (platonica) per approdare, con Callistrato, a una definizione di arte che infonde anima alla materia, superando la dicotomia tra ideazione ed esecuzione e riuscendo anche a riabilitare la nozione di eìdolon ridotta da Platone a “copia menzognera, a opposto dell’essere”. Tutto questo attraverso una figura ibrida, mostruosa per l’antichità: quella del centauro.

Fabrizio Gifuni descrive la qualità dirompente delle parole di tre grandi maestri, “tre immensi sperimentatori della nostra lingua”, di cui l’attore si è nutrito, e da cui si è fatto abitare per molti anni: Gadda, Pasolini e Testori. “Il libro diventava così una sorta di oggetto transitorio e il mio corpo un medium che si lasciava attraversare da quelle parole per restituirne una voce dormiente”, dice Gifuni; e, poco più avanti, afferma quanto sia indispensabile per un attore italiano “custodire e alimentare una memoria fisica del filo rosso che lega attraverso i secoli la lingua di Dante a quella di Gadda fino ad arrivare alla nostra lingua, quella che cerchiamo di parlare ogni giorno, dentro e fuori la scena del nostro lavoro”.

Infine Francesca Rigotti dimostra come due fasi della vita, la maternità e la vecchiaia, siano state cacciate ai margini dalla società, considerato il rapporto che le nostre società tecnocratiche intrattengono con la velocità e l’immediatezza, ma costituiscano una ricchezza straordinaria. “Importante è riuscire a perseguire fini che diano senso alla vita, importante è essere creativi e creative;[…] importante e bello è ispezionare e riflettere sulla propria vita e ricordare il passato, senza permettergli però di occupare tutto lo spazio della mente”.

Insomma una lettura molto interessante di cui in poche parole non si riesce ad esaurire la ricchezza e la complessità, ma che vale davvero la pena di intraprendere.

Rossella Pretto

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