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Matteo Meschiari. La grande estinzione

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Ho ricevuto un pacco di volumi tra cui ne spuntava uno bianco, con l’impronta rossa di un piede in copertina. Per curiosità è stato il primo che ho deciso di aprire e subito le parole mi hanno abbracciato. Si tratta de La grande estinzione di Matteo Meschiari, pubblicato da Armillaria.

Dalle prime pagine mi è stato chiaro che una sola lettura non sarebbe stata sufficiente data la concentrazione di contenuto che il libro possiede.

Non essendo del mestiere, vivendo in Spagna e avendo purtroppo sempre meno tempo di quanto vorrei da dedicare alla lettura, mi sono sempre affidato per la scelta dei libri a persone terze che stimo perché mi evitassero la frustrazione che deriva dal tentativo di leggere parole che non sono in grado di risuonare nella mia mente.

Per la scoperta di questo libro devo ringraziare il proprietario della libreria Mittel di Lodi, Franz, che ha saputo cogliere, in una chiacchierata amichevole e generosa, quello di cui avevo bisogno.

Quindi, questo libro, mi è arrivato in mano quasi per caso, o quantomeno per un giro strano del destino.

Inizia a pagina cinque con una citazione, McCarthy.

Adoro McCarthy. Recentemente ho ricomprato la trilogia della pianura dato che la prima copia era tanto usurata che ho dovuto con grande rammarico disfarmene. Dalla scrivania dove scrivo vedo spiccare il volume nuovo nella pigna dei libri da leggere sicuro che, quando lo riprenderò in mano, ne riscoprirò un’altra volta ancora la novità.

Il primo capitolo mi colpisce già dal titolo: L’Alzheimer della specie. Lo leggo concitato, in un soffio e mi commuovo.

Quelle parole dure, tragiche risuonano in me con una tale potenza che me ne sento pervaso. Le immagini delle miniere di Katanga si concretizzano davanti ai miei occhi. Mio figlio mi interrompe, mi sta chiamando. Riporto i miei occhi sul libro e penso: per quale miniera lo sto preparando?

Mentre leggo le ultime righe sento fisicamente che non sono da solo, che ci son persone oltre a me che intuiscono la rovina.

Percepisco che le cose che ho cercato di scrivere ultimamente, in un articolo e un’ intervista che (forse) a breve usciranno, avevano senso. Finalmente ho in mano uno strumento che può aiutarmi a comprendere più profondamente e aiutarmi a dare forma a quei pensieri.

Mi rendo conto che non sto cercando, né mi interessa una convergenza di opinioni: questo libro non è stato scritto per accondiscendere o trovare un compromesso tra diverse posizioni.

Questo libro è la presenza di un pensiero che diventa forma e si impianta nella geografia della memoria come punto fermo a cui ricorrere.

Un po’ come Nietzsche, che una volta letto non puoi dimenticarlo, o come il sopracitato Cormac McCarthy il cui nome verrà più volte richiamato, o Agota Kristof, o Pasolini.

Il libro è suddiviso in piccoli capitoli e ciascuno apre ad un nuovo mondo conseguente al precedente, in una specie di viaggio dall’interno all’esterno che espande la visione.

Visione non solo come legame presente, ma visione ricca di storia, capace di superare i limiti di tempo e spazio nell’immaginazione.

Quando leggo le parole “immaginare come forma di resistenza” e poi “immaginare significa soprattutto fare politica” capisco che questo libro obbligatoriamente vincola la nostra coscienza a stabilire un prima ed un dopo.

Una volta letto, ormai consapevole, dovrai fare una scelta e scegliere chi sei o chi vuoi essere.

Mentre leggo le pagine ho necessità di fermarmi, pensare, prendere un respiro. Ci sono una moltitudine di cose che vorrei trattenere, vorrei sottolineare per non perderle… Io che odio i libri sottolineati, come se quel gesto ne violasse l’integrità. Prendo la matita tra le dita ma non la uso, per non infrangere il voto che feci a suo tempo.

Poi mi imbatto ne Il grande gioco e nei due capitoli che lo seguono. Sono solo poco più di quattro paginette, un nulla rispetto la quantità di carta, e informazione on-line che leggo giornalmente, eppure hanno la forza ed il peso specifico di un monumento.

Vorrei poterne parlare ma sarebbe riduttivo, forse non ne sarei nemmeno capace. Ad essere onesti voglio, o meglio, desidero che chi sceglierà di leggere questo libro grazie al mio piccolo e fragile intervento, possa vivere la stessa esperienza che ho vissuto io.

Non vorrei ridurne l’orizzonte come spesso accade nell’arte, dove la gente parla a priori evitando un previo e necessario confronto diretto.

Bisogna tornare a lasciare che l’arte, la cultura e la vita in generale parli secondo quella che è la sua natura.

In queste quattro pagine mi accorgo per la prima volta della scrittura di cui fino ad ora non mi ero interessato.

Credo dipenda da una semplice ragione: Meschiari non ha nessuna volontà estetica, ma pesa ogni parola affinché la comunicazione sia la più precisa e chiara possibile.

Non per questo è di facile lettura, tutt’altro. Perché la precisione richiede un linguaggio spesso complesso e termini di cui a volte ci si ricorda del significato in maniera incerta.

Quello che inconsapevolmente o meno propone, è un esercizio della mente di perdita e riscoperta, una specie di labirinto cognitivo in cui mentre franano pareti, la stessa frana scopre e mette a nudo cosa esse nascondevano.

Mi sembra meraviglioso quando introduce la relazione uomo-terra e poi uomo-animale. Mentre leggo mi tornano alla mente le parole di un caro amico che mi faceva capire il senso e la grandezza che supponeva il gesto di mettere le mani nella terra, di tornare alla relazione con la terra.

E poi mi vengono in mente i miei tre cani, la mia gatta e il mio cavallo e vorrei poter dire “Marco, sai cosa? I miei animali un’anima ce l’hanno. I miei animali mi comprendono come nemmeno io so fare e io cerco di comprendere loro. Loro sanno cos’é la vita, l’armonia con la realtà, siamo noi che ce ne siamo dimenticati”. Mi piacerebbe raccontargli di come comunicano e cosa comunicano. Di quando poggi la tua mano tra la prima cervicale e la cresta nucale, o semplicemente sulle ossa del sacro e ne senti il respiro craniosacrale, ne senti la forza e la pace. Ma forse queste cose le sa già, probabilmente meglio di me.

Arrivato alla fine leggo del disorientamento di fronte all’idea di un mondo che ci vede assenti. Non capisco bene questo disorientamento perché non mi appartiene. Io credo che la vita sia nonostante noi, che in fondo siamo una parte infinitesimale dell’universo non fondamentale, che dovremmo ringraziare il mondo che ci ospita ogni volta che ci alziamo. Personalmente mi addolora profondamente vedere come abbiamo deciso di vivere, il concetto stesso di Antropocene, di un mondo rimodellato a nostro piacimento. Mi piacerebbe che utopicamente facessimo un passo indietro, che accettassimo la nostra misura di esseri viventi senza giudicare il valore di tutti gli altri.

Intercetto il titolo dell’ultimo capitolo: Istruzioni per la fine.

Ma questo lo voglio leggere questa sera. Ho immaginato che me ne andrò con i mie cani in cima a una montagna che si trova dietro casa e da lì, da quel punto di vista magnifico e grandioso, da cui non si vede un essere umano, mentre tutto diventerà azzurro, leggerò quelle parole sperando che in esse via sia racchiuso un orizzonte ampio almeno quanto lo spettacolo che avrò di fronte.

Paolo Maggis

Recensione al libro La grande estinzione di Matteo Meschiari, Armillaria, 2019, pagg. 80, euro 10.

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