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My Hero

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“Come Salinger, scrivo i libri che mi piacerebbe leggere. E non ho paura di una parola che in Europa, soprattutto in Francia, è giudicata quasi una bestemmia: entertainment”, ha dichiarato in un’intervista Philippe Djian, che proprio all’autore di Il giovane Holden ha voluto dedicare My Hero, il racconto riportato qui di seguito e finora inedito in Italia. Djian, nato a Parigi nel 1949, è considerato dalla critica “l’erede francese della Beat Generation”, una definizione che però gli sta stretta.
My Hero parte da un episodio reale, il periodo trascorso dall’autore negli Usa. Nel racconto immagina di fare una gita al fiume dove vede proprio Salinger, il suo “eroe letterario”, fermo lì a pescare. A questo punto realtà e immaginazione si confondono fino alla visione finale…
Il merito di aver finalmente fatto scoprire al pubblico italiano un autore che in Francia è pubblicato da Gallimard (e che Oltralpe si trova spesso ai piani alti della classifica) va dato alla tenacia di Daniela Di Sora, fondatrice della casa editrice romana Voland, che con rara perseveranza ha pubblicato nel giro di poco tempo ben quattro libri del nostro: nell’ordine, Imperdonabili, 37°2 al mattino, Incidenze e, poche settimane fa, Vendette. La “prima volta” di Djian nelle nostre librerie, invece, non è stata positiva: quando De Agostini pubblicò 37°2 al mattino, il romanzo finì presto fuori catalogo nonostante ne avessero tratto un film.
Spesso polemico nei confronti di “certa letteratura francese” omologata (tra i suoi riferimenti letterari, non a caso, c’è Céline), Djian ha più di un merito: non è solo uno scrittore dotato di grande ritmo narrativo, capace di ibridare i generi e di regalare improvvise svolte alle trame dei suoi libri, ma è uno dei pochi grandi autori che scrive per il pubblico senza smarrire l’onestà. E non è uno scrittore rinchiuso solo nel suo mondo. Al contrario è aperto ai linguaggi del cinema, della musica e dell’arte contemporanea, e si fa influenzare anche dall’immaginario televisivo. Chi scopre Djian difficilmente lo abbandona. (Antonio Prudenzano)

 

MY HERO

Bill Walton. Il gigante che giocava nei Boston Celtics. Avevo affittato casa sua a Cambridge, nel Massachusetts. Tutto bene, casa bellissima. A parte che i lavandini mi arrivavano al petto. E per radermi dovevo salire su uno sgabello.
Aveva mani enormi: una palla da basket in mano sua era come una pallina da ping-pong nella mia, quel genere di proporzione. Una sera me ne sbatté una sulle spalle, pensavo fosse crollato il soffitto, e fece: “Salinger? Intendi Jerome David? Quello del Giovane Holden?”.
Annuii. Eravamo seduti in veranda in attesa di un orsetto lavatore, lui con la sua ombra da gigante e io con la mia piccolina, l’animaletto ci aveva già devastato due bidoni della spazzatura.
“Se vuoi”, mi disse “lo chiamiamo. Lo chiamo, ok?”.
Mi strozzai e in un singulto sputai metà della mia Pepsi. Bill mi diede qualche pacca sulla schiena mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Così è iniziato tutto. In una notte di luna, non lontano da Harvard Square, con la caccia aperta all’orsetto lavatore perché Bill voleva raddrizzare quel figlio di puttana.
Insomma, appena mi ripresi lo supplicai di non telefonare a Jerome David Salinger, di non disturbare J.D. Salinger, perché quell’uomo, quello scrittore meraviglioso, non voleva vedere nessuno da un bel pezzo e quindi per parte mia avrei preferito piuttosto morire…
Bill digitò il numero sotto i miei occhi. Ebbi uno spasmo.
Da quando si era fottuto il ginocchio passava spesso a casa per vedere se era tutto a posto, se avevamo bisogno di niente, se non avevo abbattuto la sua antenna satellitare, toccato i suoi poster dei Grateful Dead o rotto il tritatutto.
“Ecco qua. Il gioco è fatto”. Disse. “Domani al Walden Pond. Porto qualche birra. O magari vuoi pensarci tu?”
“Devo prendere il costume?”, chiesi.
Il giorno dopo, quando Bill venne a prendermi – entrava a fatica nella sua Jeep Grand Wagoneer bianca e verde –, ero ancora incerto se scappare all’ultimo momento.
“Addirittura?”, si stupì lui, mentre mi zoppicava a fianco, fornendomi così un riparo bene accetto contro la luce del sole che fiammeggiava sul bosco. Annuii, stringendomi il petto con forza. Non riuscivo a respirare. Passammo davanti alle rovine della capanna di Henry David Thoreau. Il lago Walden scintillava giù in basso.
“Il tuo eroe chi è?”, gli chiesi, mentre ci buttavamo in discesa su un tappeto di foglie secche simili a una colata di lava. “Beh, lascia stare. Insomma, per me, J.D. Salinger…”
Non finii la frase, eravamo appena sbucati sulla riva. Abbagliante.
Abbagliante. Bill mi diede un pizzico sul braccio e mi indicò una mezza dozzina di pescatori all’opera. Jerome David S. era l’ultimo da sinistra. Gli abeti ondeggiavano nell’aria tiepida. Stavo quasi per lasciar perdere. Per fortuna ero stato abbastanza previdente da portare una fiaschetta di Jack Daniel’s e Coca.
I pescatori erano sistemati dentro grosse ciambelle, più grosse di una ruota di camion. Alcuni avevano piccole tv, altri un assortimento di thermos, gamelle, scatole di dolci. Un sistema di tute di gomma teneva all’asciutto i nostri eroi. Ogni ciambella era equipaggiata con un piccolo ombrellone.
Nel frattempo io non riuscivo a muovere un passo. Ma neanche uno. Il cuore mi galoppava. Immaginavo, dandogli mille ragioni, Jerome David che prima di lasciarsi infastidire tirava fuori un’arma dal suo galleggiante e ci abbatteva sulla riva come cani. Lo ammiravo così tanto.
Lo guardavo dondolare piano la testa: le cuffie con cui si era conciato mi lasciavano pensare che ascoltasse musica indiana, molto di moda all’epoca. Un genio.
Aveva fatto perdere le sue tracce e si celava dietro le mentite spoglie di un tranquillo pescatore, occhiali scuri e berretto della rivista In-Fisherman. Favoloso. Ero esterrefatto da tutto quel materiale da romanzo dietro cui ondeggiava una lunga fila di abeti, la stessa che Henry David Thoreau aveva contemplato il 4 luglio 1845 quando aveva appoggiato a terra la sua sacca per fare un tuffo nel lago Walden – dove già allora dovevano guizzare dei bei pesci.
“Non ci posso credere. Hai strizza?”, rise Bill.
“Strizza di che, deficiente?”, risposi, mentre una luce straordinaria irradiava dal punto esatto dove J.D. si trovava un attimo prima, azzurrognola, accecante, stridente, e lui si elevava al di sopra degli abeti con la sola forza del pensiero. Incredibile. Un genio assoluto.

(Traduzione di Daniele Petruccioli)

Leggi anche l’intervista di Philippe Dijan a Lucette Almansor, moglie di Louis-Ferdinand Céline, in anteprima su Satisfiction.me.

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