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Strani i percorsi che sceglie il desiderio. Intervista a Francesca Mazzucato

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Nessuno avrebbe avuto pietà di niente, nemmeno di un dente d’oro, della fede matrimoniale, di una minuscola catenina. La pietà ha prezzi bassissimi in guerra, si compra, si perde. Ci andavamo a nascondere in campagna, in luoghi primitivi: nei pressi di villaggi dove si trovavano vecchie anime, zoppicanti e cariche di tutto; bambini, cani randagi. Si vedevano uomini scegliere dove nascondere i fucili; donne che si arrangiavano, come me e mia madre, e nascondevano l’essenziale sotto al grembiule, fra i seni sfioriti o in una calza, come fossero al centro di una commedia senza discipline. Lo guardavo: era un territorio pieno di martiri d’amore. Un deserto, voci strozzate, grida e segreti, il paese depredato mentre il cielo diventava ruggine e l’orizzonte cupo e fosco, si sentivano lamenti e urla di ogni tipo, trči, trči, correre correre, cercando un rifugio prima delle esplosioni. Questa era la Bosnia allora.

 L’inconfessabile mi stringeva i fianchi, mordendomi il collo: aveva respirato e sbavato sul mio seno di ventidue anni, e sul ventre smagrito da guerre e terrori. Adesso è un demone. Un mostro antropomorfo; mi divora la notte e anticipa immagini prima sfocate e poi nitidissime. Corpi estranei, grossi o troppo magri, parole, membri, bocche, morsi, lingua, ancora membri, comandi, confessioni, mani forti, odori tremendi e tremori. Io che parlo troppo, gemo, svengo.

 L’inconfessabile ha avuto molte facce e molte pistole appoggiate su una sedia vicino al letto, o sul sedile di un’utilitaria puzzolente se per il letto non c’era tempo e bastava un vicolo più buio. Puzzava di sudore, sigarette e plastica, sangue secco, talvolta alcol, deodorante comprato al volo durante il passaggio in città; era l’inconfessabile e basta, una bottiglia di grappa fra le gambe, sigarette senza filtro o tante confezioni di cartine e tabacco, che, nel silenzio freddo che seguiva, illuminavano l’oscurità di fiammelle che parevano lucciole: silenziose testimoni del desiderio consumato, senza grande cura.

Esordisce così, come colpo deflagrato in pieno petto, Strani i percorsi che sceglie il desiderio, l’ultimo, straordinario romanzo di Francesca Mazzucato edito da Castelvecchi.

È la voce di Mirjana a parlare, di chi è sopravvissuto a due conflitti feroci, quello nei Balcani e quello sul suo corpo: guerre che l’hanno attraversata tutta, questa giovane donna, vittima (in)consapevole, sporco agnello al sacrificio che si rende dono di anima e carne per fare la propria parte per la patria. Una lacerazione durata anni che l’ha lasciata schiantata a terra, dopo che il suo unico appiglio alla vita, Marko, che l’aveva “scelta e voluta”, scompare per sempre lasciando vuoti che pesano più qualsiasi altra tragedia.

Alla vicenda di Mirjana per percorsi strani come quelli del titolo andranno a intrecciarsi le storie di altre donne, di altre fragilità: è colta nell’attimo dell’“età di mezzo”, Diana, che sfugge la ferocia degli sguardi sul suo corpo mutato, irriconoscibile, che si fa ingombro, ingestibile, impazzito, padrone a intermittenza anche dell’anima, ago di bussola impazzita.

Qualcuno inchioda, un clacson suona, sussulto. La città fa rumore giorno e notte mentre io cerco di non farne nessuno, insieme al mio corpo troppo ingombrante. Come cambia, mi sconcerta […] Sono goffa e lenta. Bevo una birra e la sudo, asciugo il sudore e puzzo. Attorno tutto posticcio e in bilico.

Anche Diana è definita dalle assenze: sotto la luce impietosa del discount, si piega a una spesa essenziale, priva di superfluo, rivedendo a memoria conti che non tornano mai anche nei bilanci esistenziali.

Nella mia vita manca il magico, manca l’euforia, tutto si riduce a questo insieme di movimenti meccanici, gesti programmati per far fronte ai problemi minimi, quelli di tutti, e a quelli grandi, i soldi soprattutto. Nella mia vita manca tanto, che non so nemmeno nominarlo quello che manca e che non c’è e non ci sarà.

Dicono buona serata dalle sedici. Mi chiedo perché pensino che buona serata faccia piacere. Perché pensino che chi fa la spesa stanco come me, o chi girovaga fra gli scaffali di questo parallelepipedo senza finestre, debba aspettare la sera per avere un po’ di pace o del buono. Che persone come me non possano avere del buono, un momento di tregua, una dolcezza imprevista, magari alle cinque, o non possano averlo già avuto, avere trascorso una magnifica mattinata. […] buona serata implica un programma, un diversivo. Una cosa è la sera, una cosa la serata, ampia, avvolgente, promettente. […] Buona serata ti fa venire subito delle aspettative, ti metti subito sull’attenti.

E con Diana, Annarosa, conosciuta da bambina in ospedale e ritrovata come un’adulta che la vita se la deve inventare, tra luminarie dei cinesi, dita gelate, tentativi di conforto che passano per una sosta sui social, mappe di viaggi sognati in dettaglio, di percorsi ipotizzabili a riversare desiderio che in lei assume la faccia dell’amore per una città, una nazione.

È libro di mancanze, questo romanzo. Di storie che passano tutte attraverso il corpo e le memorie che macerano e lacerano: Mazzucato è straordinaria nel trovare loro giusto passo, e parola, in una tempra di linguaggio unico di carne e vita. Una prosa senza inciampi: di pietas profondamente sentita eppure asciutta, che mai scivola in svenevolezza.

È anche libro che parla di viaggi interiori e esteriori che non collimano nei tempi e nelle modalità: c’è sempre qualcosa che scorre troppo veloce mentre altro rallenta, si impaluda. Differenti sono i tempi delle tre protagoniste rispetto al mondo che le circonda: un’esclusione di cui hanno coscienza dolorosa, così come delle identità perse e rimescolate, nelle persone, nelle etnie: “non capivo dove stava la mia morale, dov’erano i confini. Quelli del mio corpo e quelli del mio paese”, confessa Mirjana in questa frase che è la chiave di volta per comprendere, da lettori, le sue scelte. Per lei in particolare tutto è liquido, permeabile, oggetto di un assedio che permane dopo la fine di tutte le guerre, ma che troverà senso altrove, in un’Italia dalla bellezza salvifica.

Meritano, queste tre donne, uno sguardo amorevole, sollievo e recuperi, sogni possibili.

Meritano paci provvisorie, anche in terre di perenne frontiera.

Strani i percorsi che sceglie il desiderio è libro di conferma della natura potente della scrittura di Francesca Mazzucato, che si fa lievissima nel trattare materiale di anima anche nei personaggi gregari come Patricia, l’amica di Mirjana che si inventa “piccole e grandi fughe” prendendo autobus a caso per perdersi nelle periferie, a “dimenticare la sparizione di suo padre e non solo”, e che scappando dai momenti cattivi, diventa puro urlo, figura da grande tragedia. Anche lei – come Diana, Annarosa e Mirjana, delusa da chi promette e non mantiene, dai perpetratori di “crimini dell’assenza”, causa di vuoti più pieni delle presenze – condivide la stessa, forte, spinta al vivere.

A chi è escluso, a chi non può salire sulla giostra e si siede in parte a guardare le luci, è dedicato questo romanzo corale, carnale, impeccabile: il migliore di Francesca Mazzucato per scrittura e narrazione, certamente fra i più belli degli ultimi anni.

Anna Vallerugo

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Perché questa profonda fascinazione per i Balcani, Francesca? Da dove e quando nasce?

I Balcani e in particolare alcune aeree della ex-Jugoslavia mi avevano lasciato tanti interrogativi irrisolti, in particolare una volta completato lo smembramento di quel paese che si chiamava Jugoslavia. Cominciai da Trieste.  Ogni viaggio ha delle frontiere obbligate, dei passaggi necessari, il primo era senz’altro lì, nella città tanto amata da James Joyce. A Trieste è avvenuto anche il primo avvicinamento alla spiritualità e alla intensità dei riti delle chiese Ortodosse. Anche Joyce andava ad ascoltare la messa, da ateo, ribadiva.  A volte si dice “ateo” per difendersi. 

Nel frattempo cominciai a seguire il blog di Babsi Jones che avrebbe poi scritto il fondamentale romanzo Sappiano le mie parole di sangue.

Rimasi folgorata. Dovevo leggere, capire di più. Andare oltre la narrazione ufficiale dei tremendi periodi delle guerre. E poi volevi spingermi oltre. “Attraversare” Trieste e proseguire.  È cominciato così, leggendo Andrić, il giornalista francese Jacques Merlino e non ho più finito.

Poi sono arrivata nella città bosniaca di Banja Luka e tutto mi si è come svelato. 

Questo tuo apparentemente sembra un romanzo con uno sguardo al femminile, ma in verità gli uomini vi prendono tutta la parte delle assenze...

A Banja Luka ho osservato le ragazze e le madri e ho proseguito la ricerca delle “madri”-ossia il riconoscimento delle donne e del femminile – che avevo già iniziato da tempo. Nei Balcani ogni cosa a tratti si rivela, precisissima, per poi tornare ad essere torbida ed effimera come le vendette e i destini. Sono arrivati da soli i personaggi del romanzo, si sono imposti. Anzi, imposte. Ci sono gli uomini, sono l’amore che non resta, sono la promessa mancata, o il ritorno fuori tempo massimo, sempre.

È romanzo scritto in assenza di giudizio?

Sulle guerre bosniache no, c’è un giudizio nato da nove anni di studi, dalle persone che ho conosciuto e dalla lingua che ho imparato. Studiare il cirillico, per me abituata a tante lingue con un altro alfabeto, è stata una esperienza trasformativa potentissima.  Poi, c’era un tale groviglio all’epoca ma le mistificazioni della propaganda e della retorica occidentale mi hanno fatto arrabbiare. Consumiamo troppe idee di giustizia a scadenza come consumiamo hamburger.  Siamo una civiltà unta di olio e sbavata di ketchup, smemorati e concentrati su universali giovinezze al silicone. Nei Balcani gli anziani hanno storie e memorie, lì ho ascoltati, ho ascoltato le loro perdite. Poi, certo, ho sfumato ogni punto di vista personale per poi narrare e restituire. 

E nonostante questo, se le tue protagoniste sono colte in un momento di perdita, di recupero dopo una caduta, c’è possibilità di una sorta di salita (redenzione è parola troppo religiosa)?

Redenzione mi piace molto. Se questo aspetto si coglie per le mie protagoniste, sono molto contenta. Non credo ci siano parole troppo “religiose ” anzi. Ci sono i riti (quelli quotidiani o quelli delle festività, quelli amorosi e quelli del corpo) Ogni atto è un rito, dice lo Zen, su questo mi sono basta accompagnando le vite delle mie protagoniste, cercando  le parole, i vuoti e i pieni.

C’è infine uno scrittore, un romanzo in particolare, una musica che trovi abbiano particolarmente suggestionato la scrittura di questo libro?

Certo, Ivo Andrić, Manolis Anagnostakis, Gordana Kučić, Samuel Beckett, Mathias Énard, Sam Shepard, Megan Bergman, la gente di Banja Luka. Ma senza Babsi Jones e Sappiano le mie parole di sangue non avrei mai cominciato a studiare e a scrivere di Balcani, è stato un romanzo cruciale nella mia vita. E il terribile turbo folk balcanico, che ha un potere quasi ipnotico. 

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