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Davide D’Urso. I famelici

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Ci sono padri che appartengono alla generazione del fare: sorretti da una spinta incrollabile all’affrancamento da una condizione sociale che trovano inappagante, pare segnino una linea verso l’alto che dovrebbe, nelle migliori intenzioni, tracciare il solco in cui i figli avrebbero l’obbligo di accomodarsi per proseguire, con un passaggio del testimone, le loro fortunate attività lavorative.

Capita però che spesso la generazione che immediatamente li segue abbia apparentemente minore spina dorsale o piuttosto meno oggettive opportunità e per di più reclami in modo legittimo tutt’altri interessi da perseguire.

Lo scontro è inevitabile, il senso di sconfitta finale nella sensazione di essere reciprocamente una delusione da entrambe le parte, pure.

Potrebbe essere questo un buon soggetto per una tragedia, in fondo, ma Davide d’Urso per I Famelici (Bompiani) che si presenta come romanzo ma poggia su un’acuta analisi che richiama l’esattezza di un saggio, sceglie molto opportunamente un tono e una leggerezza di passo felicissima.

Racconta così anni di storia di una famiglia e del suo trasferimento dal Sud al Nord e ritorno in cui molti si potranno riconoscere.

A dominare sia nucleo familiare che il narrato è un padre di grandezza quasi epica, inarrestabile nel conquistare una dopo l’altra le sue pietre miliari: la costruzione di una casa, l’acquisto della macchina, un posto fisso all’Alfasud mantenendo il lavoro nei campi per sicurezza, e poi lo studio serale per conquistarsi il diploma, il conseguente passaggio all’occupazione impiegatizia, le abitazioni che si moltiplicano.

Contraltare di tale padre è un figlio quarantenne come tanti, troppi, della sua generazione persi tra laurea e master che si accumulano nell’attesa del giro di vento che trasformi i lavori temporanei in qualcosa di più solido, nel colpo di fortuna che sistemi un po’ tutto.

Privo sì di ferme certezze ma che tra ammirazione e timore reverenziale si fa anche ampiamente critico nei confronti della generazione precedente, accusata di mancata partecipazione ai grandi movimenti di massa perché presi dalle proprie tappe di sviluppo personale, borghesi.

Uno sviluppo (anche) economico di cui i figli solo da adulti colgono il peso del sacrifico, dello stringere i denti, dell’accontentarsi come unico svago, una volta saliti al Nord, di una passeggiata a Milano come un’avventura mirabolante, rinunce che hanno permesso alla loro generazione dei figli di potersi dedicare al solo studio e rendersi in una qualche misura loro sì estranei al reale, perenni adolescenti:

Un giorno, mentre gonfio d’indignazione m’infervoravo contro il suo Berlusconi, mi rivolse una domanda. Mi chiese cosa ne pensassi della nuova legge sugli assegni postdatati. Silenzio.

Non avevo idea di cosa mi stesse dicendo. Ero uno studente e non disponevo di un conto corrente, figuriamoci di un libretto d’assegni. Anzi, a ripensarci, credo che fino ad allora non avessi mai pronunciato la parola “assegno”.

Una semplice domanda aveva messo in luce il rapporto sostanzialmente nebuloso che avevo con la realtà.

Con il reale e le sue asperità ha a che fare da sempre il padre, invece, che è il famelico modello del titolo, frutto della generazione nata sotto la spinta del concretizzare (Essere è avere, anzi essere è fare), del porsi sempre un passo avanti rispetto al vicino di casa, dell’arrivare per primo a possedere un’abitazione al mare che suo malgrado si vedrà invasa da parenti per settimane, e dove li accoglierà dandosi arie da negus, un plutocrate in ciabatte e pareo in una felicissima immagine di uno dei capitoli più godibili del libro, così come quelli dedicati alle occasioni pubbliche dove per una legge non scritta è d’obbligo dare il meglio di sé, che sia passeggiando lungo il corso o in una cerimonia di famiglia, dove i famelici omaggiano i parenti di racconti ipocriti, girando attorno al cuore di ogni problema e presentando esclusivamente luminose immagine di loro stessi e delle loro attività lontanissima dal reale.

Un culto dell’apparenza che del desiderio dei figli di affermarsi in ambienti a loro estranei, quello delle lettere nel caso del romanzo, fa comprendere il solo aspetto esteriore: il favoleggiato, immaginario prestigio per la loro prole di trovarsi a interloquire con chissà quali pezzi grossi dell’editoria.

La realtà, molto più semplicemente, è che l’alternativa alla generazione del fare è quella dell’instabilità economica e familiare dell’oggi, qui incarnata dal figlio che si vuole lontano da paragoni di superficie coi cugini famelici e ambisce invece a leggere e scrivere (non a presentare i propri libri in tragicomiche cornici prestigiose nelle occasioni organizzate da associazioni chiamate a raccolta, va da sé, dall’onnipresente genitore).

Animato da ottime intenzioni, vagamente donchisciottesco, il Figlio del Famelico non può non suscitare umane simpatie nella sua fragilità e imperfezione, nel suo affermarsi come individuo, nell’acquisire consapevolezza di sé e di una fondamentale parte di storia italiana proprio dal confronto col padre.

La cifra di Davide D’Urso è di certo, la riuscita ironia mai fine a sé stessa, di spessore, malo sono anche la facilità di dialogo, il parlato vivo lungo tutto il romanzo, fin nei personaggi minori (molto bello il tratteggio della figura dell’amico del padre, Serafino, che ambisce a una condizione piccolo borghese ma è privo della spietatezza dei Famelici e alla fine, soccomberà).  

Non c’è condanna in D’Urso, ma gratitudine e lucido amore – ammesso non sia un ossimoro -, rara chiarezza d’analisi caratteriale e comprensione indulgente e finale di ogni umano limite.

Anna Vallerugo

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