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Una storia nera. Intervista ad Antonella Lattanzi

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una storia neraRoma è caldissima nel mese di agosto e la piccola Mara compie tre anni. Ha espresso un desiderio quella mattina, vuole festeggiare il suo compleanno con tutta la famiglia. La mamma, Nicola, Rosa, e il suo papà, Vito. Carla ha ottenuto il divorzio dopo aver subito per anni minacce e violenze da parte di Vito, ma non riesce a dire di no a sua figlia. Organizza la serata con cura e tutto sembra andare per il meglio. È una mamma giovane, bella, bionda e delicata. Ha amato molto suo marito e forse lo ama ancora. È anche emozionata all’idea di rivedere il suo Vito, che ha una nuova compagna e una nuova vita ma non riesce a fare a meno di pensare a lei. Quella sera sembra sereno, sembra cambiato. Vito non ha mai picchiato i suoi figli, non ha mai picchiato la sua nuova compagna né altre donne. Lo sa sua sorella Mimma, lo sa la sua amante Milena, lo sanno Nicola e Rosa che hanno assistito per anni alle violenze del padre senza riuscire ad odiarlo. Ci sono paure, menzogne, tanti segreti e troppe bugie in questa storia nera. Ma c’è anche una certezza: Carla è viva solo perché Vito non tornerà mai più.

Carla ha lasciato Vito perché prima o poi l’avrebbe uccisa di botte, ha lasciato lui per non lasciare orfani i suoi figli. Hai detto di aver studiato molte storie di violenza domestica prima di scrivere questo libro, ce n’è stata qualcuna che, più delle altre, ti ha colpita?

Non ce n’è stata una in particolare. Per questo libro mi sono comportata come con gli altri due, e con le sceneggiature che scrivo: c’è stato un lungo tempo di ricerca dal vero, svolto studiando casi di cronaca e di cronaca nera, e un altro tempo di studio di diverso tipo, in cui pensavo e riflettevo su qual era la storia che volevo raccontare. Qual era il punto, il fuoco per me di questo romanzo, qual era la storia che avevo urgenza di raccontare. Credo infatti che l’invenzione romanzesca – ma anche cinematografica – contenga in sé, in potenza, tutte le storie reali, e che la possibilità di usare la fantasia e l’invenzione sia uno strumento potentissimo, se usato bene, nelle mani di un romanziere.

I figli di Carla sembrano formare una famiglia a sé, il rapporto fra Nicola e Rosa diventa morboso quando i due si fanno carico di Mara, la sorella più piccola. Credi che un ragazzo come Nicola, cresciuto nella violenza e tanto simile a suo padre, sia condannato a seguirne le orme, o proprio la consapevolezza di essere “danneggiato” lo renderà diverso?

Cosa succederà a Nicola nel futuro non lo so. Me lo sono chiesta molte volte nei mesi di scrittura e me lo chiedo adesso, mi piacerebbe molto sapere cosa succederà ai figli, e a Carla, dopo la fine di questo libro. Ho varie ipotesi, ma dovrei mettermi a scrivere per capire quale, davvero, secondo me è quella giusta, quella reale. Credo che la violenza generi violenza e che sia difficile discostarsi del tutto dal tessuto familiare in cui si è vissuto: abbiamo così tanto dei nostri genitori, passiamo l’adolescenza a combatterli ma poi nostro malgrado, da adulti, ci accorgiamo che non siamo riusciti a essere poi così diversi da loro, con l’unica differenza, dolorosa, che noi sappiamo quanto i nostri genitori siano limitati, sofferenti, sbagliati – come tutti noi –, e dunque ancora di più ci capita di detestare noi stessi quando ci riconosciamo simili a loro. Credo che la violenza generi violenza, dicevo, ma anche che non sia mai detta l’ultima parola: se un figlio riconosce la violenza familiare può discostarsene, possiamo lavorare per essere diversi dai nostri genitori se lo vogliamo, possiamo riuscirci.

Carla è di spalle, lava i piatti. Milena prepara da mangiare per la figlia troppo magra, Rosa veste la piccola Mara, Mimma corre a fare la spesa per le nipoti. Donne diverse fra loro che si prendono cura di qualcun altro. L’immagine della donna accudente, anche quando ferita, umiliata o feroce è uno stereotipo?

Quelle di Una storia nera non sono donne accudenti, sono, per me, persone. E come tali hanno aspetti di cura e di dolcezza, e aspetti di egoismo e di violenza. Milena per esempio, l’amante di Vito, si cura solo superficialmente di sua figlia, in realtà la invidia. Carla è una madre presente e dolce, ma la sua vocazione è essere accudita, non accudire. Mimma è rimasta orfana di Vito quando suo fratello è andato a vivere a Roma, lo accudisce da lontano, il che equivale in pratica a non accudirlo affatto, se non dal giorno in cui scompare, che è il giorno in cui Mimma incarna una missione: trovarlo a tutti costi.

Parli di Roma centro, dei gabbiani che ormai hanno preso il posto dei piccioni e incombono in ogni “scena”, del Pigneto, del quartiere Monti. Ma parli anche di Massafra e descrivi le donne che la abitano. Quanto c’è della tua Puglia in Massafra?

Bari è molto diversa da Massafra, sono due zona della Puglia molto distanti tra loro. In questo libro ho deciso di raccontare Massafra perché è un posto ambiguo, bellissimo con le sue gravine di un fascino abbacinante ma anche posseduto da lati oscuri.

Nel descrivere il processo evidenzi il sessismo dei commenti in aula. Anche il PM, che è una donna, attacca brutalmente una testimone. Le peggiori nemiche delle donne sono ancora le donne?

Non lo so, non ho pensato scientemente a una cosa del genere, non ho pensato a un romanzo di genere. Credo che la situazione vari caso per caso, che c’entri molto la cultura – certamente chi ha meno cultura ha una visione della donna molto più arretrata. È vero però che sul lavoro, per esempio, le donne sono ancora molto discriminate, ricoprono ruoli di potere molto meno degli uomini, sono pagate meno. Ma non so dire con certezza se siano le une le maggiori nemiche delle altre. Certamente le donne sono ambiziose, il che è molto bello, ma se l’ambizione non è sana può arrecare grande danno a sé e agli altri.

Ti ricordo spaventata su un palco, sette anni fa. Oggi pubblichi il terzo romanzo tradotto in 10 lingue, sei una sceneggiatrice (complimenti per Fiore, è un piccolo gioiello del cinema italiano) e presto uscirà un film tratto da Una storia nera. Cosa è cambiato in te negli ultimi dieci anni?

Ti ringrazio per i complimenti, tengo moltissimo a Fiore, sono felice che ti sia piaciuto. Cos’è cambiato, vediamo. Certamente il mio lavoro – quando ho scritto il mio primo romanzo, Devozione, non scrivevo per i giornali, non lavoravo come sceneggiatrice, non insegnavo alla scuola Holden, avevo scritto un solo romanzo. Umanamente, però, credo di non essere cambiata molto. Forse sono più consapevole del mondo in cui lavoro e in cui vivo, e ciò è importante. Ho lavorato e lavoro duro, sempre, ma soprattutto nel nostro campo – la letteratura, il cinema – non possiamo mai dare nulla per scontato. Ogni nuovo film, ogni nuovo romanzo è una nuova scommessa. Che sono felicissima di accettare.

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