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Matteo Meschiari: dispacci dall’Antropocene #6

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Preistoria futura, Pleistocene attuale, passato imminente, domani ancestrale, archeologia del dopo, Paleofuturo…

Il cortocircuito tra evoluzione e de-evoluzione è uno scenario distopico che dall’Ottocento in poi non ha smesso di generare banalità: manipolare allegorie temporali è un’arte sottile, per lo più incompresa, come dimostra l’insofferenza astiosa di molti cervelli pigri di fronte alle cronoarchitetture di Christopher Nolan.

In questo senso la Preistoria come gravidanza di mutazioni a venire è un abisso che solo un Werner Herzog poteva cristallizzare in una icona narrativa. Accostando gli animali dipinti nella grotta paleolitica di Chauvet ai coccodrilli albini di una serra tropicale riscaldata dalle acque di raffreddamento di una centrale atomica. Non è per caso, allora, se per trovare un titolo italiano in grado di muoversi con disinvoltura tra Preistoria e Antropocene si debba andare a stanarlo al di fuori della bolla scrittoria del business as usual (quella di una palude generazionale che vive ancora negli anni Ottanta e Novanta).

Il mondo sta cambiando, invece, e il cambiamento avrà come protagonisti coloro che tra venti o trent’anni si troveranno fra i dieci e i quindici anni. È per loro (per questa fascia di età) che bisognerebbe scrivere oggi, ed è ciò che accade con L’ultimo cacciatore (2021) di Davide Morosinotto, un libro che intercetta diverse parole-chiave che ci guidano (o dovrebbero guidarci) in questo passaggio d’epoca: sopravvivenza, estinzione, iniziazione, mutuo appoggio, perdita, rinuncia, trauma, nomadismo, sacrificio, nostalgia, resistenza. Il gruppo di ragazze e ragazzi della storia è certamente l’immagine a rovescio, sulla freccia del tempo, di una umanità futura che, nel collasso climatico per l’arrivo dei nuovi caldi, dovrà allestire un immaginario alternativo per non soccombere (piante, animali, paesaggi, umani-guida, oggetti) ma anche, e forse soprattutto, che sta trovando una fiducia nuova nel corpo come estrema, nuda risorsa mentre tutto crolla e va via.

Così, in questo duro, inesorabile abbandono, il ragazzo che racconta la storia comprende il proprio esserci, un esserci qui e adesso, che lo fa sentire leggero, “Perché ero vivo, e potevo vedere quella meraviglia che stava sopra di me, e mi riempiva, e c’era il profumo del mare, il rumore delle onde, la notte, il fuoco, la pace. Io”. Un io diffuso, un corpo fluido, un futuro possibile.

Matteo Meschiari

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