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Gianluca Barbera anteprima. Mediterraneo

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Privilegio delle narrazioni è quello di aprire porte su mondi inaspettati, inaccessibili nella realtà di tutti i giorni: esattamente questo fanno i libri di Gianluca Barbera, aprono porte, e non fa eccezione Mediterraneo, l’ultimo, in uscita domani per l’editore Solferino.

L’innesco della storia è una email. Giovanni Belisario la riceve da suo figlio Christian, è una mail allarmata, qualcuno gli sta addosso, dice, probabilmente è in pericolo. Quando il padre tenta di contattarlo, non c’è verso, è irraggiungibile, dunque non gli resta che partire e andare a cercarlo. Le ultime notizie che possiede lo dicono a Creta, verosimilmente è lì che si è cacciato nei guai. E così, Belisario inizia il suo viaggio, un viaggio che lo porterà dapprima in Grecia, poi in Turchia, poi ancora a Gerusalemme. A questa situazione di partenza si aggiunga, di lì a poco, il ritrovamento di un manufatto impossibile. Un oggetto capace di aprire varchi nel passato, forse in altre dimensioni. Cadono quindi le convenzioni che definiscono la realtà, Mediterraneo si trasforma in un’avventura che oltrepassa spazio e tempo. Realtà, mito e leggenda diventano un’unica, grande scacchiera su cui il protagonista si muove, si perde, forse si ritrova.

Di un libro come questo, che è fatto di continue sorprese, non è davvero il caso di dire di più. Barbera ha aperto le porte, sta a chi legge attraversarle e lasciarsi incantare, divertire, sorprendere. Il suo lettore affezionato ci troverà dentro tutti gli ingredienti che hanno connotato anche le opere precedenti: il gusto per l’intreccio, l’interesse per le altre culture, la lingua sempre sorvegliata ed elegante, l’incastro di più storie l’una dentro l’altra.

Dopo una serie di splendidi libri che strizzavano l’occhio ai romanzi d’avventura – ne erano insieme un affettuoso omaggio e una personalissima rilettura -, questa volta Barbera ha deciso di giocare con i ritmi indiavolati del thriller, confezionando un racconto teso e veloce. Un thriller come questo avrebbe potuto scriverlo Borges e invece lo ha scritto Gianluca Barbera, confermandosi un narratore colto e generoso, uno dei migliori in circolazione oggi.

Edoardo Zambelli

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In principio era il Caos

«In principio era il Caos» disse il maestro.

«E che cosa c’era prima del Caos?» saltò su Epicuro,

che non era mai contento.

«Domandalo ai filosofi» rispose il maestro.

«È quello che farò.»

Ma Epicuro fece di più: diventò lui stesso filosofo. E a quel punto la risposta se la trovò da solo, come scrisse a Erodoto: «Ma, in verità, anche i mondi sono infiniti, tanto quelli simili a questo quanto quelli dissimili. E, infatti, gli atomi, essendo infiniti, come è stato appena dimostrato, vanno anche lontanissimo. In effetti tali atomi, dai quali un mondo potrebbe nascere e per opera dei quali potrebbe essere creato, non sono stati spesi tutti per un mondo solo o per un numero limitato di mondi. Perciò non c’è nulla che possa costituire impedimento alla infinità dei mondi».

Belisario alzò gli occhi dal libro e guardò in direzione del mare che nasconde segreti.

Il mare dà, il mare toglie, pensò. Ma oggi il Mediterraneo restituisce più cadaveri che pesci.

Prima che per assistere alla sua commedia, era venu- to a Creta in cerca del figlio. Non lo sentiva da mesi. Poi una sera aveva ricevuto una e-mail che lo aveva messo in allarme.

«Ciao papà, da un paio di settimane mi trovo a Frangokastello, nel sud di Creta, sulla costa più selvatica. Un posto dominato dalla più totale anarchia urbanistica. Sono venuto qui per mettermi tutto alle spalle e starmene in pace. Ad Atene ho conosciuto una ragazza e ho deciso di seguirla… Ma la verità è che sto scappando. Qualcuno mi sta addosso. Prima ad Atene, ora qui. E prima ancora ad Andros: è lì che tutto è cominciato. Nell’ultimo anno, come saprai, benché tu non sia al corrente di ogni cosa, sono finito in mezzo ai guai. Era il momento di darci un taglio. Anche se ho l’impressione che non sia di questo che si tratti. Ci deve essere dell’altro, questioni più gravi; per ora non voglio azzardare nulla, finché non sarò sicuro. Ma ho paura. Credo sia gente pericolo- sa. Ti prego, non avvisare la polizia. Non ancora. Se necessario, sarò il primo a farlo. Ho le mie ragioni. Ti spiegherò tutto in un vocale. Ma ora ascolta. Ho bisogno del tuo aiuto. Puoi farmi un prestito? Due o tremila, quello che puoi. Te li restituirò, promesso. Non posso spiegarti, ma sono rimasto quasi a secco. Se puoi aiutarmi te ne sarò grato. Se sei d’accordo domani aprirò un conto e ti comunicherò l’Iban. Fammi sapere. Spero che tu e mamma siate in salute, so che ogni tanto vi vedete, non litigate, un abbraccio, Christian.»

Gli aveva subito risposto di fargli avere gli estremi del conto: avrebbe provveduto immediatamente. Ma a quella e-mail non ne erano seguite altre. Aveva provato a rintracciarlo sul telefonino, ma dava staccato o irraggiungibile.

Aveva fatto avanti e indietro per la stanza. Si era messo in macchina per darsi una calmata e riordinare le idee. Si era fermato in libreria per distrarsi. Era stato tentato di chiamare la sua ex moglie, ma aveva rinunciato per non allarmarla. Dalla morte di Giulia, Eva aveva sviluppato un attaccamento morboso per il figlio. Poi il caso ci ave- va messo lo zampino: era stata lei a chiamare. Lui aveva fatto finta di nulla, le aveva chiesto da quanto non avesse notizie di Christian. Lei aveva ammesso di non sentire la sua voce da un mese, aggiungendo però di non essere preoccupata perché aveva ricevuto una cartolina elettronica da Creta in cui le diceva che stava benone e che aveva una nuova fidanzata.

È tranquilla, si disse Belisario. Meglio così.

Più tardi era andato su expedia.it e aveva prenotato un volo per Creta e una macchina a noleggio. Da tempo si riprometteva di fare un viaggio da quelle parti, tanto più che a Cnosso stava per andare in scena una sua commedia. Se n’era quasi scordato.

sdr

Due giorni dopo si era imbarcato a Firenze, un volo low-cost, e nel pomeriggio era atterrato a Heraklion. Da lì si era messo in viaggio verso il sud dell’isola a bordo di una jeep vecchiotta ma scattante, prima per strade asfaltate e poi per sterrate che guardavano a precipizio su vallate oscure e pietrose, in alcuni tratti a strapiombo sul mare.

Aveva fatto tappa a Fódele, luogo natio di El Greco, e poi a Chania, a pochi chilometri da Cnosso. Aveva parcheggiato in uno spiazzo tra i limoni e fatto due passi tra le bianche rovine minoiche, poi una visita al porto veneziano e al faro, simile a un minareto. Una rapida occhiata alla moschea dei Giannizzeri e alla rude fortezza Firkas. Dopo un paio di ouzo tracannati di furia, era ripartito.

Per raggiungere Frangokastello aveva impiegato quasi una giornata, passando per l’altopiano di Askifou, per Chora Sfakion, lungo una strada piena di strappi e curve a gomito, tra valli solitarie qua e là ammantate di boschi carbonizzati. Era giunto a tarda sera e aveva trovato alloggio in un vecchio albergo a tre stelle bianco di calce, in faccia al mare, il Candia, poco distante dalla fortezza veneziana di San Nicola, ancora solida nella sua pietra brunita, tirata su nella seconda metà del quattordicesimo secolo direttamente sulla spiaggia, un lato a picco nell’acqua immobile e verdognola della rada.

Ora il problema era trovare il figlio. Il posto era piccolo perciò in qualche modo ce l’avrebbe fatta.

L’albergo disponeva di una terrazza sul mare e dopo una doccia scese per la cena e si sistemò nel tavolo più prossimo alle scogliere, da cui poteva godere della vista dell’isolotto di Gavdos, famoso per le sue spiagge profumate e per aver offerto riparo, nel 1539, al pirata Barbarossa, asserragliatosi nel faro.

Dalle nude montagne alle sue spalle scendeva una brezza fresca, a tratti un po’ insistente. I camerieri correvano come bianche trottole a comando. Dal menù scelse un antipasto di mezè, poi kakavia, una speciale zup- pa marinara, pescato del giorno alla griglia – barboúnia, tsipoúra, garídes –, carpaccio di xifias, e una bottiglia di Péza: erano secoli che non ne beveva. Non ricordava più che sapore avesse. Al primo sorso si risvegliarono antichi diavoletti.

A conclusione del pasto, si concesse generosi bicchieri di raki, acquavite servita in caraffe e accompagnata da fette di cocomero nano. Si ritrovò presto con la bocca impastata.

Dopo cena si stese su una poltrona in veranda, a leggere e fumare. Una donna inglese sui quaranta, che sfoggiava lunghi capelli neri lucenti, molto ben curati, cercò di attaccare bottone; pensò non fosse il caso di darle spago. Non era male, in verità, ma parlava per luoghi comuni e la cosa lo infastidì.

«Lo sa» disse lei a un tratto, cambiando registro, «che una volta all’anno, tra maggio e giugno, sul fare del tramonto, tra le mura del castello riappaiono le ombre dei soldati greci massacrati dagli ottomani nel 1828, o dovrei piuttosto dire i loro spettri?… Qui li chiamano drosoulites, ombre di rugiada. Sono in molti ad averli visti, tra i vecchi muri. Anche qualche turista. Probabilmente si tratta soltanto di giochi di luce generati dal sole calante sulle pietre rossastre del castello.»

Belisario le rivolse un sorriso per due terzi, accorgendosi di colpo del suo leggero strabismo, che comunque non guastava.

«Pare che nel 1890 i turchi di guarnigione a Frangokastello se la siano data a gambe alla vista di quelle ombre. Lo stesso accadde con la truppa tedesca, durante la Seconda guerra mondiale.»

«Lieto di sentirlo» aveva detto lui, trattenendo uno sbadiglio. Di storie così se ne sentivano in ogni posto. Ma lei non si era data per vinta e aveva continuato a discorrere in lingua stretta, un inglese cadenzato e orecchiabile.

Da lontano giungeva un rumore di spari, forse una festa di nozze.

«Lo sapeva» continuò lei «che Schliemann venne qua guidato dal suo fiuto nel 1886, dopo aver scoperto i resti di Troia e Micene? Tentò di acquistare i terreni vicino al paese, sicuro che custodissero segreti. Aveva saputo che un mercante di olio e sapone, appassionato di archeologia, qualche anno prima aveva riportato alla luce in quella zona decine di giare di terracotta ricoperte di iscrizioni. Ma non fece in tempo: la morte fu più lesta. Presto giunse da queste parti un altro archeologo dilettante destinato a diventare celebre, l’inglese Arthur Evans – ne avrà sentito parlare –, che acquistò quei terreni e iniziò gli scavi. Fra il 1900 e il 1905 portò alla luce il sito dell’antica Cnosso, coi suoi prodigiosi affreschi, restaurandolo e in parte ricostruendolo, in modo scenografico e discutibile, così come lo vediamo ora.»

«In effetti» fu il commento di Belisario.

«E lo sapeva che gli antichi abitanti di Creta praticavano sacrifici umani, specie di bambini?»

«Non mi risulta.»

«Eppure nel sito di Archanes – ci sono stata – hanno ritrovato i resti ossei di bambini che presentano segni di ferite da taglio.»

Non significa granché, pensò Belisario, ma non lo disse. «È un’appassionata del macabro?» domandò invece. «Cerco di fare colpo su di lei, nel caso non se ne sia accorto.»

Belisario non disse nulla, nemmeno il beneficio di un sorriso.

«Lei ha l’aria di uno che ha viaggiato molto: è così?» «Ne ho visto, di mondo.» Si accese un’altra sigaretta. «Se dovesse raccontarmi la cosa più straordinaria che le è capitata?»

Belisario si concesse un sorriso a labbra sigillate. Parve riflettere, poi disse: «È stato in Mongolia. Nel cuore di Ulan Bator c’è un antico palazzo, enorme, sembra disegnato col pennello. Quando mi ci trovai davanti, fuori era appeso un cartello che reclamizzava una serata a cena col Gran Khan. A pagamento, s’intende. Di solito non faccio queste cose. Troppo turistiche. Ma il prezzo era d’occasione. La lista per quel giorno era piena, perciò prenotai per la sera seguente».

La donna inglese lo fissava con occhi ardenti. Portò alle labbra il calice e lo vuotò. Per fargli compagnia si accese un sigarino.

«Trascorsi il giorno a leggere e a passeggiare per la città e per la steppa. La mattina dopo visitai il monastero buddhista di Gandan, l’unico sopravvissuto alla rivoluzione comunista, e a sera mi presentai alla cena. Indossavo pantaloni da trekking, una camicia di lanetta, un maglione spesso e una giacca a vento. Il palazzo era ben riscaldato, perciò mi spogliai.»

«Temeva di trovare saloni gelati?»

«Più o meno. I mongoli, ancora oggi, per riscaldarsi bruciano di tutto. Perfino copertoni.»

«Sono tutte leggende.»

«Probabile. Comunque, la sala era enorme, un cam- po da calcio. Vengo fatto accomodare a un lungo tavolo rettangolare, accanto a turisti australiani e polacchi. Allungo lo sguardo e vedo il trono del khan, in fondo alla sala. Ci spiegano che egli siede più in alto di tutti, lo sguardo rivolto a meridione. A sinistra, più in basso, si accomoda la moglie più anziana. Poco più in là la pre- ferita; a destra i figli, una ventina, e i parenti. Sono attori, ovviamente. Nessuna testa deve superare in altezza i piedi del khan. Tutti i tavoli, spiega la guida, prima in inglese poi in spagnolo, devono essere a portata di sguardo del khan, che in tal modo può sorvegliare ogni cosa, ogni movimento, ogni turbamento.»

«E poi?»

«La sala, spiega la guida, può contenere fino a seimila invitati. Su un lato, siedono a gambe incrociate, su spessi tappeti arabescati, i cento baroni della corte. Entrano di continuo persone a offrire doni al khan. Su ogni tavola è stesa una tovaglia di pelle di capra. Al centro tre coppe: una di vino, l’altra di latte di giumenta, la terza contenente latte di cammello. Assaggio quest’ultimo, molto nutriente, ricco di vitamine, a quanto dicono, ma non fa per me: troppo salato. I baroni si alzano di continuo per servire il khan. Gli versano da bere, gli sminuzzano la carne, le verdure, sempre con un velo di seta sul viso, per non trasmettere infezioni col respiro.»

Il bicchiere era vuoto. Belisario fece segno al cameriere di portargli un altro ouzo, poi continuò: «Ogni volta che il khan alza la coppa, su un palchetto l’orchestrina comincia a suonare e tutti devono interrompere quello che stanno facendo e inchinarsi. Il khan non sfiora mai il boccale con le labbra. Si cala la bevanda in gola da di- stanza, sollevando la coppa sopra la testa. Per nessuna ragione le sue labbra toccherebbero un boccale da cui altri hanno bevuto. A quei tempi, racconta la guida, per la sua sicurezza i vari ingressi della sala erano presidiati da alani armati di bastoni: pronti a colpire chiunque sfiorasse la soglia coi piedi, gesto ritenuto di cattivo augurio. Il divieto non valeva per chi lasciava la sala. Dall’alto della sua saggezza il khan aveva previsto che molti ospiti a fine serata sarebbero stati ubriachi e ben difficilmente avrebbero potuto dirigere i passi con attenzione. Il khan, continua la guida, teneva sempre attorno a sé una schiera di astrologi tibetani che si adoperavano con incantesimi per allontanare dal palazzo il maltempo, le disgrazie, le malattie. Quando qualcuno veniva giustiziato i maghi lo cuocevano nei pentoloni per ricavarne pozioni a uso della famiglia imperiale».

Arrivato l’ouzo, Belisario bevve avidamente.

«E dunque?»

«A un tratto l’attore che interpreta il Gran Khan batte le mani: da una credenza le caraffe si sollevano in aria e volano fino a noi per riempirci i bicchieri di vino, senza che nessuno le sfiori. Alcune, dopo aver volato per una ventina di metri, finiscono nelle mani del khan, che ci osserva con un sorriso divertito. Dove sta il trucco? Il giovane polacco alla mia destra si gira e dice in inglese: “Non è la prima volta che assisto a simili fenomeni”. “E come li spiega?” “Non lo faccio, accetto il mistero.” “Non diciamo fesserie!” Ma lo dico in italiano, in modo che nessuno capisca. In inglese, invece, osservo: “Ci dev’essere qualche filo invisibile sopra di noi, un gioco di carrucole”. “Può darsi” interviene la signora australiana seduta di fronte. “So che sono i tebot a farlo.” “Chi?” “Gli stregoni tibetani di cui il khan si circonda. Li vede, laggiù, a quel tavolo? Vivono nella Celeste Torre cibandosi di sensin, una speciale semola mescolata con acqua calda.” Mi volto e scorgo degli uomini dal cranio rasato con indosso abiti celesti pieni d’intarsi, tutti molto composti e solenni. Per un attimo ho l’impressione di essere stato catapultato indietro nel tempo e di trovarmi davvero alla corte del Gran Khan. “Kublai Khan soffriva di gotta” spiega la guida, “perciò aveva sempre accanto a sé un medico.” Ma il medico non si vede. A un certo punto entrano giocolieri, ballerine, prestigiatori. Il khan amava essere intrattenuto mentre mangiava. Tutti insieme danno vita a uno spettacolo modesto, come quelli cui si assiste sulle navi da crociera. Di colpo entrano uomini dal volto e i capelli imbrattati di argilla. “Sono gli incantatori” annuncia la guida. A un semplice gesto delle mani, su una parete appaiono il sole e la luna. Cala il buio. Resto immobile, sento strani rumori, come di zoccoli di cavallo. Quando la luce torna, nella sala incedono quattro cavalieri, ha inizio una giostra. Fingono di scontrarsi, il vincitore si avvicina al trono per ricevere il premio, una corona di alloro. A un certo punto il khan inizia a sbadigliare, si alza e se ne va. Ho finito quello che avevo nel piatto, tutto molto buono: montone arrosto, orecchie di vitella inzuppate nell’aceto, gnocchi di carne al vapore, frittelle alla vodka e altre pietanze misteriose. Me ne vado traballante per via di tutto l’ajrag che ho bevuto: una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del latte di giumenta. Un vero schifo! Ecco qua.»

«Mi prende in giro» fece la donna, come se non aspettasse altro.

«Può darsi» disse lui.

Vuotò ancora un bicchierino di ouzo, si alzò e salutò. Una volta in camera prese dal frigbar una birra, la stappò, si sforzò di leggere, ma gli occhi si chiudevano. Cadde in un sonno pesante, anche se intermittente. A metà notte, come spesso gli capitava, si risvegliò. Andò alla finestra, uscì sul terrazzino e restò a fissare il mare, giù dagli scogli, sotto la luna tonda, godendosi il rumore lento della risacca. Saliva una nebbiolina gialla che partoriva strane figure in movimento. Si mise a fantasticare.

Poi sentì che il sonno sopraggiungeva e si rificcò nel letto. Faceva buio, ma si accorse subito che sotto le lenzuola c’era qualcosa, qualcuno. Fece un salto. Una donna nuda, dalle curve abbondanti, gli sorrise. La signora inglese!

«Vieni» disse lei, facendogli posto.

Non se lo fece ripetere.

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Gianluca Barbera, Mediterraneo, Solferino, 2021, 240 pagine, 17 euro

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