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Pupi Avati. L’archivio del diavolo

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Pupi Avati, maestro riconosciuto del cinema italiano, torna in libreria con L’archivio del diavolo, edito da Solferino 2020, romanzo sequel del precedente Il signor diavolo. Questa di accompagnare al film anche il libro da cui è tratto è una pratica che in Avati è già ampiamente sperimentata. Diverse sue pellicole, infatti, hanno visto anche l’uscita in libreria della controparte letteraria. È bene precisare che non si tratta della semplice pubblicazione delle sceneggiature, come sarebbe facile pensare, bensì di veri e propri romanzi.

Il signor diavolo si chiudeva sospeso, con l’immagine del protagonista, Furio Momentè, che veniva abbandonato nella cripta della chiesa di Lio Piccolo, paesello sperso nella campagna veneta. Questo nuovo episodio inizia qualche tempo dopo quegli eventi, in un giorno in cui dal cielo iniziano a piovere dei misteriosi filamenti verdastri. Don Stefano Nascetti, giovane e promettente parroco della curia veneziana, si trova improvvisamente coinvolto nella morte di una donna, c’è addirittura chi sospetta che potrebbe esserne lui la causa diretta. Per mettere a tacere voci e sospetti, tutte cose che potrebbero portare a un grave scandalo per la chiesa, don Stefano viene trasferito in gran fretta proprio a Lio Piccolo. Lì lo attende un’agghiacciante scoperta: nella cripta della chiesa, infatti, viene ritrovato il cadavere di un uomo, apparentemente morto di fame e stenti. E non solo, c’è anche un cadavere più piccolo, il cadavere di un bambino, di cui sembrerebbe che l’uomo si sia nutrito. Questa è solo la linea narrativa principale di un romanzo che ha il suo punto di forza nella coralità degli eventi raccontati. Molti sono i personaggi che entrano in scena, alcuni più volte, altri solo per poche e brevi apparizioni. Proprio come nell’episodio precedente, anche qui si ritrova lo stesso intreccio tra pubblico e privato, tra credenze contadine e giochi di potere. È un horror fatto più di suggestioni, di sottili allusioni, che non di eventi scopertamente macabri.

Quella di Avati è una narrazione scritta che si nutre profondamente di cinema. Non tanto per una qualità visiva della scrittura – c’è comunque anche quella -, quanto per il montaggio, lo slittare continuo dei punti di vista, l’intreccio fitto di scene brevi molto dialogate che si legano l’una all’altra dando al lettore il senso di un movimento ininterrotto. Ne viene fuori un romanzo estremamente godibile e avvincente, corre veloce e senza inciampi verso un finale che prelude – forse – ad un terzo episodio.

Edoardo Zambelli

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