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Teddy Barnaba e il Contagio

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La strada, polverosa, emulava l’infinito. A tratti, risultava lenta. L’iconografia dello scorrere permeava il manto con alternata precisione: qui e là, sebbene forati da calibro pesanti, i cartelli segnavano la consueta rotta sud nord e la mappa verso il Ghennesaret, la nostra meta. Con orgoglio, la SS 166 fendeva ancora gli estremi della federazione. Tra gli svincoli, esibiva “l’antica” bontà del transito. E, filando, rassicurava il viandante sulla scarsa possibilità di “contagio”. Le variabili indugiavano, ma, se accadevano, sapevano in che misura sovvertire quel genere di opprimente sensazione. In fondo, i cordoni sanitari, come le pattuglie antisommossa, provvedevano ad esaltare le ragioni di una trincea.

Gli avvenimenti declinati al “contagio” risolvevano la storia tra crudeltà e lutti e se la fine imminente sembrava del tutto irrilevante, la fede con cui gli abitanti di Dog City celebravano la vita, li faceva più simili di quanto in realtà potesse apparire. Se la legge gratificava la “continuazione” con la eliminazione di uno “scarto”, l’intera comunità viveva ai margini di una più che cannibale speranza. Forse, nessuna voce di valore come in quel caso era pari al peso di quel lessico morale che impone la severità del giudizio estetico al più calibrato fra gli egoismi animali. Sia chiaro, forse. Si, perché se uno cercava il minimo tra i favori dalla vita, retribuendo la morte, l’altro dispiaceva il clima delle cose, tentando di sopravvivere ad ogni genere di atrocità che la vita erogava. Ed ecco perché quel vecchio sbilenco seppe, più di chiunque altro al paese, come ricavare il più duraturo tra i benefici dagli uffici banali del male. Lo storpio, l’ultimo gestore del grande emporio, intuì, e da tempo, che ad agire le esistenze dei residenti era il più temibile dei mostri in tempi di cattiveria. Era convinzione di tutti al paese, infatti, che per opporsi al “contagio”, e quindi alla morte, sarebbe bastato diluire la delazione al terrore.

Teddy Barnaba era l’uomo che amava i funerali. La sua arte veniva richiesta a tutti i minuti del tempo. Di conoscenze ne possedeva parecchie, ma era con le parole che il vecchio stronzo sapeva farci. Soprattutto, dopo che i Podestà, per schiacciare la valenza barocca del “virus”, ordinarono la devastazione pressoché totale di libri, librerie e ogni sorta di biblioteca. Teddy viveva la vita un rigo sotto le pertinenze del disagio e con quella gentilezza che è simile al disprezzo. Manifestava quel borioso distacco, ma con quella disinvoltura che piace a chi, con sufficienza, plaude al commiato. L’uomo che amava i funerali, in quel tratto di strada, tra burocrati e spietati hunters, era benvoluto da tutti, malgrado risultasse oltremodo svantaggioso incoraggiarne il vezzo e trattenerne il nome. Le sue frasi – quelle di Ovidio e Shakespeare tra le predilette – ordite nella pietra per stupire i sopravvissuti, oltre che i morti, rendevano insostituibile il vigore con cui testimoniava, ai residenti del posto, l’intendere erotico del prossimo turno. Lasciata alle spalle Dog City, attraversammo confini e frontiere, e con noi, celato nella tempia sinistra dell’ultimo nato, l’ultima copia del Moby Dick di Melville.

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