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Goffredo Parise ritrovato

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Nell’estate del 1948 un diciottenne Parise abbandonò sconsolato la pittura per aver visto alla Biennale di Venezia i quadri di Marc Chagall. Che il russo “trasparisse” comunque dalla sua scrittura, lo intuì presto Eugenio Montale recensendo il secondo romanzo parisiano, La grande vacanza (1953), senza rilevarvi però l’ascendente di un altro grande avanguardista, quel Georg Grosz che il Nostro già prima dell’esordio con Il ragazzo morto e le comete (1951) aveva elogiato in uno dei suoi primissimi articoli di giornale1.

Se si esclude la curiosità duratura per Filippo De Pisis trasmessagli da Giovanni Comisso con Mio sodalizio con De Pisis2, un rapporto diretto e testimoniabile con la pittura Parise lo instaurerà solo nel 1964, anno in cui visita il padiglione statunitense alla Biennale e stringe legami di amicizia con i giovani artisti romani ruotanti attorno alla galleria La Tartaruga, del cui titolare Plinio de Martiis segnalerà all’inizio dell’anno dopo “la tenacia e la passione con cui ha imposto al pubblico romano quella giovane arte figurativa, ormai senza confini, che è nata sotto il nome di ‘pop art’. Il fenomeno, come si sa, è esploso alla Biennale d’arte di Venezia lo scorso anno, con le polemiche che tutti conoscono, e in massima parte, per opera di artisti americani. Fatto abbastanza logico se si pensa quale importanza filosofica assuma in America l’oggetto (nella fattispecie l’oggetto di consumo nei grandi stores) e con l’oggetto, le sue qualità ed essenze primariamente visive. Tuttavia anche in Italia si sono avuti artisti che hanno lavorato nel senso chiamato ‘pop art’, cioè secondo un criterio direttamente mimetico dell’oggetto”3.

L’incontro con la Pop Art era stato preceduto dalla frequentazione assidua a partire dal 1960 di Alberto Moravia, del quale Parise assorbì la filosofia così come traspare in purezza dalla prefazione siglata “ottobre 1963” alla raccolta di saggi L’uomo come fine, dove Moravia prende a bersaglio “l’antiumanesimo che oggi va sotto il nome di neocapitalismo”: “mettendo esso a disposizione delle masse una sterminata quantità di beni di consumo fabbricati in serie, […] la nostra vita diventerà sempre più comoda”, ma insieme crescerà “la noia, il disgusto, l’impotenza e l’irrealtà, in una sola parola: il nulla”. Detto altrimenti, il neocapitalismo è feticistico” e in quanto tale fonte perenne di “alienazione”4. Da par suo, Parise coniuga gli stessi temi, con lo stesso stile e praticamente in sincrono: nella pièce L’assoluto naturale composta tra il 1962 e il 1963, il cui quadro quinto è significativamente titolato “Gli oggetti”; ne Il Padrone, romanzo neocapitalistico par excellence le cui stesure risalgono al biennio 1963-64; negli articoli de Il crematorio di Vienna usciti dal 1963 al 19665.

Tornando agli artisti-amici romani, l’unico non menzionato nell’articolo è Franco Angeli, che Parise però risarcirà nel novembre 1974 con una presentazione alla galleria Il Collezionista il cui incipit suona: “La serie di brevi scritti, di lettere, di minuscoli ritratti di miei amici pittori italiani è quasi conclusa. Manca Tano Festa, su cui un giorno scriverò come promesso. […] Una volta finita questa serie non scriverò mai più di pittori anche se non è detto che in futuro, se la vita mi darà tempo, salute e fortuna, non incontri altri pittori italiani e stranieri che possano diventare miei amici per il loro modo di muoversi, di camminare e di dipingere. Per il momento ho i miei dubbi: da dieci anni non ne ho più incontrati”6.

Su Festa non manterrà la promessa; in compenso, sul decennio di vuoto sbaglia, perché un pittore l’aveva incontrato e pure frequentato al punto da scriverne dopo aver visto una sua mostra alla galleria romana Il Gabbiano, 5-28 novembre 1970:

 

DIVERSITÀ” E “SFERICITÀ” IN SERGIO VACCHI

Sergio Vacchi è la persona più “diversa” che io abbia conosciuto nel mondo. Che cosa intendo per “diversa”? Intendo molto semplicemente “diversa dagli altri”. Questa “diversità” è data dalla qualità, appunto “diversa” del suo temperamento di artista. Certe volte lo osservo, fenomenologicamente se così posso dire (ma anche come un compagno di banco del liceo), cioè con la curiosità, lo stupore e l’ammirazione con cui mi è sempre capitato di guardare l’aspetto, i movimenti e i mutamenti nei fenomeni della natura: la vita delle formiche e delle api, altri animali, i fiori e le piante. Scopro nel suo atteggiamento, nei gesti, nel largo sorriso esterno ed interno, molto spesso attonito e quasi atono che lo illumina tutto, lo stesso mistero tanto più attraente in quanto inconoscibile nella sua essenza, di certi felici eventi della natura quando si mostrano in tutta la loro sferica innocenza. Ho detto sferica perché Sergio Vacchi è “sferico”: possiede cioè la compattezza, liscia e vagamente lucente, la apparente invulnerabilità, il naturale orgasmo autoespressivo di una mela, di uno scheletro di riccio marino, di un ciottolo di torrente. Tutto ciò in un uomo è molto “diverso” dagli altri. Ma poiché si tratta pur sempre di un uomo dirò che tale “sfericità” e “diversità” ecc. ecc. sono tali da fare di Vacchi non un adulto ma una specie di grande neonato senza amici, felice lo stesso. Ma Vacchi è anche un artista, guardiamo dunque i suoi quadri (sempre secondo i metodi o, più che metodi, secondo gli stupori delle scienze naturali) e capiremo (nell’improbabilità del capire) quel mistero naturale chiuso dentro la sua “diversità”.

La prima volta che vidi i quadri di Vacchi alla Galleria Nuova Pesa cercai di esaminarli razionalmente, ricorrendo ad interpretazioni immediate (che invece risultarono mediatissime): onirismo, Freud, sedimento quasi biologico di cultura cattolica (o cattolicesimo biologico che è la stessa cosa), sogni di fasto e di pompa liturgica su un fondo di decrepitudine polverosa e barocca. Mi venne in mente Fellini, cioè una costante del temperamento di Fellini, che è press’a poco questa. Pensai all’espressionismo, al simbolismo, insomma pensai (stupidamente pensai) alla cultura e non alla natura. Intuii subito quella “diversità” di cui ho parlato all’inizio di queste righe, ma non la capii affatto, anzi non capii da dove veniva. Tendevo cioè, immediatamente dopo la sospensione visiva, l’attimo di contemplazione, a imboccare la strada dell’interpretazione razionale, vecchio difetto, partendo dalle indicazioni culturali. Mi sbagliavo, era un errore mio, culturalistico appunto. I quadri di Vacchi non vanno visti così, non all’interno della cultura (e la sovrabbondanza di opere di tutte le sue mostre dovrebbe suggerirlo automaticamente), bensì come ho tentato di spiegare, all’interno della natura e delle sue vastità.

Non è facile: le suggestioni, i rimandi culturali, le trame perfino letterarie, l’uso degli argenti, degli ori e del rame sono elementi tutt’altro che naturali, presi a sé stante. Senonché questi elementi, di costruzione, perdono, per così dire, tutta la cultura per strada, nel quadro. Quello che mi è tanto piaciuto, che rappresenta la madre morta, “stirata” da un ferro da stiro, o la serie degli uccelli mitrati (che è una specie di breve filmato parascientifico, cabalistico, ma altrettanto simile a un documentario didattico sulla nascita di un pulcino) apparentemente carichi di sovrastrutture culturali sono in realtà un impasto di materie stravolte, “decomposte” per cui il ferro da stiro mortuario è una litania assurda, da pazzo liturgico, le fatiscenti aluzze degli uccelli mitrati e le sedie gestatorie reazioni chimiche di una putredine da immondezzaio mondiale in perpetuo ribollìo.

Tutto ciò può apparire contraddittorio con la “sfericità” (geometria) del Vacchi, ma non lo è. Si pensi, non per esempio ma per meglio capire, alle sfere diamantine di Bosch, pullulanti di bestie e di uomini: si pensi cioè ai grandi contenuti d’ombra di un solido come la sfera.7

 

Il rapporto con Vacchi aveva dunque una storia, con un inizio preciso:la personale alla Nuova Pesa inaugurata il 28 novembre 1964, dove stavano esposte alcune tele del Concilio8.

L’altro dato desumibile è un successivo mutamento di giudizio sull’opera del pittore, facilitato indubbiamente dall’ultima produzione appartenente al nuovissimo ciclo Perché il Pianeta: Parise cioè rovescia la gerarchia cultura/natura a favore del secondo polo. Qui essenziale dev’essere stata l’assimilazione creativa di Charles Darwin, letto già nei primi anni Sessanta su imbeccata di Carlo Emilio Gadda9, ma allora integrato nella prospettiva ideologica di una critica al consumismo, mentre qui è un radicale libero – libero appunto dall’apparato teorico dell’amico Moravia, il quale rispetto a tele appartenenti al medesimo ciclo esposte giusto un anno prima alla galleria L’indiano di Firenze aveva scritto in catalogo: “Mi sembra chiaro per adoperare la terminologia freudiana, che Vacchi ha cacciato fuori dal suo studio l’io e il super-io e si è rinchiuso tutto solo con l’Es. In altre parole e più alla buona: ha voltato le spalle al mondo reale, si è rifugiato nel sogno. Resta adesso da vedere, sempre continuando l’interpretazione psicanalitica, se Vacchi ha sublimato oppure rimosso la propria traboccante alluvione onirica. A prima vista si penserebbe ad una sublimazione […]. Ma in Vacchi, i mostri dell’inconscio sono il prodotto sorprendente e affascinante di una rimozione originaria trasmutata in nevrosi. Così l’alienazione, che è pur sempre all’origine dell’arte, si rivela bifronte: una faccia esprime la dedizione estrema, l’altra faccia l’estrema estraneità. Nel mondo attuale noi conosciamo soltanto la seconda. I dipinti di Vacchi ne sono l’illustrazione e la testimonianza”10.

Parafrasando Georg Lichtenberg, “un quadro è uno specchio: se davanti ci passa una scimmia, non ne esce un apostolo”. Negli stessi quadri di Vacchi, i due si specchiavano. Per fare il punto su Parise nel 1970: dopo aver consentito controvoglia alla pubblicazione in volume degli articoli del Crematorio11, in primavera raggiunge il Laos per un reportage, in estate compra casa a Salgareda sul Piave, dove in autunno riceve Claudio Altarocca cui confida: “Decadenza? Anche le carrozze erano belle, ma non si usano più. Voglio dire che nonostante tutto il mio non è un discorso pessimistico. […] Moravia direbbe che il mio è un discorso irrazionalistico. Per me sbaglia. È invece razionale, gli ributto la palla: credere di spiegare le cose è solo crederlo perché le cose non si chiariscono mai. Il rapporto fra l’uomo e le cose non è solo razionale ma anche sentimentale, dicano quello che vogliono […]. Per fortuna sono abbastanza tonto da non essere del tutto razionalista. Ringrazierò sempre Dio di questa tontaggine animale che mi permette di avere quelle bizzarrie, quegli scarti, quell’insofferenza per l’eccessiva razionalizzazione nelle cose”12. A dicembre infine, tornato a Salgareda dopo la parentesi romana di novembre, scrive il pezzo su Vacchi e poco dopo consegna quella che sarà la prima voce del Sillabario13.

 

1Grosz. Il caricaturista della Germania di Weimar, in “Alto Adige”, 20 febbraio 1051. Nell’unica mostra di pittura cui abbia partecipato (Venezia, settembre 1947), Parise presentò una tela raffigurante un cimitero.

2 Longanesi, Milano 1954 – “il libro più bello del Novecento italiano”, secondo il giudizio espresso da Parise all’autore in una lettera del 1957 (Fondo Comisso, Biblioteca comunale di Treviso).

3G. Parise, Pop-art italiana, “Corriere d’informazione”, 6 febbraio 1965, dove vengono citati Tano Festa, Mario Schifano e Giosetta Fioroni. Nel novembre 1965 Parise presenterà alla Tartaruga una mostra di Mario Ceroli, altro rappresentante del gruppo, e alla galleria Odyssia una di Schifano.

4 Verso la fine del 1962 Moravia aveva polemizzato su “L’Espresso” con Giacomo Debenedetti, che lamentava l’uso spropositatamente diffuso negli ambienti letterari italici del termine “alienazione”.

5 “34 episodi di logica e morale contemporanea”, come li definirà in seguito. Significativo poi che nel 1966 Parise dedichi a Moravia Gli americani a Vicenza, ristampa in volume di un racconto scritto quasi dieci anni prima e definito ora “una intuizione figurativa della funebre spettacolarità di oggetti americani (uomini e cose) che vidi cinque anni più tardi in America, carichi di tutto il loro falso splendore”. E da considerare infine la trascrizione di un colloquio del 1982 con Oreste del Buono: “Ho avuto due rapporti fondamentali. Magistrali. […] Quello con Alberto Moravia e quello con Giovanni Comisso. Comisso mi ha insegnato l’arte. Moravia la vita. […] Moravia mi ha fornito l’esempio del comportamento pratico. La necessità dell’uso della ragione, il bisogno della razionalità.” (“La Stampa”, 5 marzo 1994).

6 Dopodiché parlando di Angeli Parise rimanda a Gioacchino Belli senza menzionare neppure la Pop Art (e lo stesso farà con la Fioroni, associata ai giapponesi e a De Pisis in “Bolaffiarte” del marzo-aprile 1975).

7 “Carte segrete” n. 15, gennaio-marzo 1971, pp. 14-16 – mai citato nelle bibliografie, negli studi critici, né al convegno su Parise e le arti organizzato il 25 settembre scorso a Venezia dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti.

8 Il ciclo intero occupava, non notato evidentemente da Parise, una sala della Biennale 1964 (troni, tiare e manti papali con profusione di ori e di rossi sanguigni che suscitarono le ire del patriarca veneziano). Nel 1966 Vacchi presenterà un secondo ciclo, Morte di Federico II Hohenstaufen, e nel 1968 un terzo, Galileo Galilei semper, conclusivo della sua ricognizione sul tema del potere.

9Il libro consigliato era L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto al sesso, tr. it. di M. Lessona, Unione tipografico-editrice torinese, 1871 (più volte ristampato).

10Assonante assai con questo è il testo del sodale Enzo Siciliano contenuto nel catalogo della mostra al Gabbiano: “La pittura di Vacchi sembra divorarsi – sembra distruggere e bruciare senza sosta tutto quello che crea […]. La storia defluisce nell’inconscio del singolo, e là prolifera, si distrugge, si alimenta solitariamente, tragicamente di se stessa. L’autofagia della pittura di Vacchi rende tangibile l’incidenza del destino collettivo sull’individuo: rende tangibile la repugnanza e la soggezione che quell’incidenza suscita”.

11 Uscito nel novembre 1969 per Feltrinelli, a Giuseppe Prezzolini che l’aveva definito noioso e ripetitivo Parise il 25 gennaio 1970 consente motivando: “rappresentava fino a poco fa il mio reale stato d’animo nei confronti della vita che non mi piaceva vivere”, e dichiarandosi soddisfatto solo del titolo, sostitutivo in extremis del redazional-marcusiano L’uomo in serie.

12 Il colloquio uscì in C. Altarocca, Goffredo Parise, La Nuova Italia, Firenze 1972.

13Amore, in “Il corriere della sera”, 10 gennaio 1971, poi in Sillabario n. 1, Einaudi, Torino 1972 – ventidue voci ambientate per tre quarti nel Veneto (la prima voce “romana” sarà Antipatia dell’8 giugno 1971, ritratto caustico dell’altro sodale di Moravia, Pier Paolo Pasolini, e di tutto il côté politicizzato della capitale).

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