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Alessandro Zaccuri inedito. L’arte del mercato

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L’italiano parla il francese cattivo dei nizzardi, ma il mercante ha deciso di non farci caso. È una lingua impacciata e greve, simile allo strumento che un dilettante tenti di suonare a orecchio. Tutto, in quest’ultima frase, lo irrita: il cozzo di espressioni convenzionali, il frusto ricorso alla similitudine, il fatto stesso che una frase così ovvia sia venuta in mente a lui. “Neppure i miei ascari pensano in modo tanto volgare”, si rimprovera mentalmente e nel medesimo momento il rimprovero si duplica, perché il pessimo francese dell’italiano lo sta distraendo più di quanto voglia ammettere. Ora basta, non è più tempo di grammatiche e letterature. Non è mai stato tempo di letteratura, in effetti, però adesso basta davvero. Esiste soltanto questa tenda, in questa periferia di deserto. Un italiano che balbetta preposizioni sbagliate e una partita di fucili inglesi che da sei mesi attende un compratore. Potrebbe essere l’italiano, finalmente, e al mercante soltanto questo interessa: che il ferro diventi oro. Pietra filosofale, alchimia, un’altra paccottiglia di similitudini da cui tenersi alla larga.

Come se avesse dimenticato chi è il suo interlocutore, il mercante compie i gesti consueti ai quali ricorre nella trattativa con i capitribù berberi. Indica con la sinistra le quattro armi distese a campionario sul piccolo tappeto posto fra lui e l’italiano. Con la destra, intanto, solleva un altro fucile, che fino a quel momento ha tenuto nascosto sotto la stuoia: un pezzo più elegante, la canna lavorata a sbalzo con motivi di foglie, il calcio intarsiato dagli artigiani delle oasi. Cerimonioso, introduce l’arma come l’omaggio che, concluso l’affare, si ripromette di offrire al compratore in segno di riconoscenza per la fiducia accordata e quale pegno di futuri contratti.

All’italiano il fucile interessa poco, lo reputa una ferraglia polverosa, identica a tanta mercanzia intravista nei suq di Algeri. Lo incuriosiscono piuttosto le mani del mercante, piccole e snelle come quelle di un ragazzo che non abbia mai conosciuto il lavoro. Anche il volto dell’uomo ha un aspetto malsano, annuncia una vecchiaia precoce e forse artificiale, quale capita talvolta di riconoscere nelle donnine da tabarin, nelle perdute maddalene dei postriboli, nelle creature che a vent’anni già nascondono sotto biacca e rossetto i guasti prodotti dal vizio. Addosso al mercante, del resto, anche il caffetano sembra piuttosto la vestaglia di una mantenuta, forse perché – a differenza degli arabi – l’uomo tiene il capo scoperto, con i capelli che cadono disordinati ai lati del volto gonfio. La barba spoglia accentua l’aspetto femmineo, la luce opaca delle lampade esaspera lo squallore della scena. Eppure ogni dettaglio, nella tenda, pare studiato per trasmettere un’illusione di opulenza. L’italiano non riesce a farsi ingannare e segretamente se ne rammarica. Conoscesse di più l’Oriente, pensa, gli sarebbe più facile confondere l’oro con l’alpaca, l’incenso scadente con qualche spezia preziosa e arcana. Non si dovrebbe venire fin quaggiù a cercare fucili, conclude. Fucili inglesi, poi.

Il mercante comincia ad annoiarsi. Per interrompere la monotonia della trattativa batte le mani e subito una giovane servitrice etiope offre all’ospite un vassoio di lukum, attende che l’italiano si serva e torna con due tazze di caffè scuro e denso, dal quale sale un profumo di cannella. Il mercante assaggia per primo, verificando la bontà della mistura e rassicurando nel contempo sulla sicurezza della bevanda. Con la bocca ancora impastata di dolciume, l’italiano assapora il caffè, lo trova diverso da quanti ne abbia mai bevuti e, per questo, migliore di quanto si aspettasse.

Chiede di provare un fucile e il mercante acconsente con entusiasmo. L’arma è leggera, il meccanismo risponde a dovere. L’italiano si domanda se non sia rimasto, per caso, un colpo da sparare. Basterebbe una fiammata per spacciare il mercante e derubarlo del suo carico. Sulla fedeltà degli ascari circolano dicerie desolanti: a delitto consumato, il poco che l’italiano ha in borsa basterebbe per farlo uscire indenne dalla tenda con i fucili e magari con la piccola etiope accordata come gingillo. Non è quello che intende fare, però continua a domandarsi se il mercante sia così astuto da avergli passato un fucile scarico oppure così arrogante da mettergli in mano un’arma in grado di uccidere. Torna a immaginare lo sparo e il breve fuoco dell’esplosione illumina il quadro in modo perfetto. Ora sa che al mercante non interessa vivere, né importa di morire.

«Fucili inglesi, moneta inglese», precisa l’altro in quel momento. «E sappiate, mio buon amico, che non starò a domandarvi a quale utilizzo è destinato questo vostro arsenale. L’Africa è vasta, l’Oriente sterminato. Quel che si acquista qui può essere adoperato ovunque, per qualsiasi scopo. Perfino per una rivoluzione in Europa, casomai foste tra quelli che ancora prestano credito a questo genere di soluzioni. Io vendo, voi acquistate. Ma nella fattispecie accetto soltanto un pagamento in sterline, tenetelo a mente.»

«Potrei essere qui fra tre giorni, con la cifra che chiedete», risponde l’italiano.

«Può andar bene, ammesso che fra tre giorni la mia carovana sia ancora qui.»

«Come posso saperlo?»

«Tornando fra tre giorni, mio buon amico. Da queste parti non c’è altro modo per essere sicuri di un’informazione. Siete nuovo dell’Africa, non è vero?»

L’italiano annuisce e intanto punta le braccia a terra, comincia ad alzarsi. Il mercante rimane immobile, pronto a mimare un salamelecco di commiato. Non ha previsto che il cliente abbia ancora una curiosità da soddisfare.

«Siete davvero voi?», lo interroga: «Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s’ouvraient tous les cœurs…»

Ascoltare quelle parole, storpiate per di più con un accento da manigoldo, gli provoca un imbarazzo prossimo all’umiliazione. Il mercante alza la mano con un gesto autorevole e selvaggio: «Basta così!», intima. «Non sarete voi a tormentarmi con queste sciocchezze.»

«Voi siete un grande poeta, signore, perché vi nascondete in questa tenda?»

«Io sono un grande mercante, questo sono. Chiedetelo ai miei ascari, chiedetelo alla ragazza che tanto vi aggrada… Oh, non allarmatevi: riconosco ancora il desiderio, quando lo intravedo. Io per me non desidero più nulla.»

«Dunque è vero: siete voi», conclude l’italiano. È in piedi, all’ingresso della tenda. Potrebbe apparire in posizione di vantaggio rispetto al mercante, ancora accucciato a terra. Eppure è lui, dal basso, che continua a dominare la scena.

«Dite frasi senza senso», rimprovera infatti con l’alterigia di un visir. «Nessuno è mai sé stesso, Io è sempre un altro. Chiunque abbia letto i versi che vi compiacete di maltrattare dovrebbe intenderlo senza sforzo. Mi auguro per voi che non vi consideriate un letterato. Sareste semmai un imbrattacarte, un facitore di sonetti come tanti se ne trovano in Italia. Sonetti rivoluzionari, per di più. Che orrore, mio povero amico, che orrore.»

«Tornerò fra tre giorni, con le sterline», prova a rimediare l’italiano.

«Tornate pure e vedrete se sarò rimasto ad aspettarvi», ribatte il mercante.

Uno abbassa la testa, l’altro lo congeda con una mossa scostante della mano.

È solo di nuovo. Sbocconcella il suo lukum, sorbisce un po’ di caffè dalla tazza, cerca di ignorare il morso che, dall’incavo del ginocchio, gli assale la carne. Si sforza di immaginare che anche quel dolore sia riservato a un altro. Senza nostalgia, ricorda quando la sua vita era una festa e la bellezza ancora attendeva di essere ingiuriata, simile a un’etiope distesa nella penombra dell’harem.

Anche quest’ultima frase gli risulta detestabile, al pari di ogni altra.

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