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Francesco Spiedo. Non muoiono mai

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Che sapesse scrivere come Dio comanda, Spiedo me l’aveva già confermato con il suo esordio, quel Stiamo abbastanza bene, uscito sempre per Fandango in pieno lockdown che, nonostante i guai pandemici del periodo, era comunque riuscito a ritagliarsi una buona (e meritata) fetta d’attenzione ma al vaglio della sua seconda pubblicazione, Francesco è riuscito ad andare oltre.

Si torna a Napoli, location tanto cara all’autore e che avevamo già intravisto, tra ricordi e ritorni, nel suo precedente romanzo, una città-mondo che qui si allarga, abbracciando anche la campagna circostante: una terra di nessuno in cui “pare siano tutti morti”, un paese popolato solo da vecchi, gli unici abitanti di queste zone da cui ogni ragazzo con un po’ di aspirazioni e ideali vuole scappare, un buco in cui restano solo loro, i vecchi. Questi dannati vecchi che “non muoiono mai”, che persistono, dimenticati e ammucchiati, duri e fieri come la pietra scalfita che sfida il sole, come la nonna di Enrico, uno dei tre protagonisti del romanzo.

Di vecchiaia, morte, incomunicabilità e resistenza c’è n’è parecchia nelle pagine del romanzo. Sentimenti amari mescolati tutti assieme in una cortina agrodolce che odora di naftalina e si tramanda dagli abiti di nonna ai pensieri dei nipoti. Enrico, Margherita e Pasquale, tre cugini che non si sono mai parlati abbastanza e dopo anni si ritrovano di nuovo a convivere tra le mura di quella casa in cui le parole faticano ancora oggi a uscire spontanee, tre personalità estremamente diverse le cui voci si alterneranno lungo tutta la narrazione dando vita a un discorso corale ma che spesso viaggia su binari esistenziali separati, decoupage complesso e stratificato di un disegno più generale che abbraccia epoche, usanze e credenze eterogenee.

Enrico è un social media manager, il più giovane e scanzonato, il classico nomade digitale a cui basterebbe un letto e una connessione internet stabile per sopravvivere ovunque eppure, all’inizio del romanzo, pare essere proprio il più riluttante all’idea di voler restare. Margherita, alias Margot, invece, è un’anima dalla scorza ben più dura, scappata a Parigi dieci anni prima per troncare ogni ponte con la famiglia e una zavorra di ricordi scomodi ancora frutto di incubi, oggi è una donna indipendente che ha imparato e tenersi tutto dentro e camuffare le sue preoccupazioni a colpi di “Mon Dieu” ma ancora in grado di incantarsi e commuoversi quando i suoi occhi si posano sul profilo del Vesuvio. E poi c’è Pasquale, il più giovane del trio, appena laureato in agraria, di animo sensibile, lo “strambo” dell’accademia, sempre in cerca di un equilibrio, che sia vegetale o domestico, poco importa.

Tre protagonisti, tre voci distinte e riconoscibili obbligate a convivere con l’austera figura di nonna. Novantun’anni sulle spalle, poche frasi, quelle giuste a farsi capire e un cervello che le funziona una bellezza. “Nuovo di zecca, ancora imballato”. Nonna, tassello indispensabile di un nucleo familiare a rischio di detonazione. Nonna, i cui ricordi tornano a galla via via più lucidi, invadenti, quasi a voler sostituire con forza quel presente di insoddisfazioni grigie e amarezza decadente. Nonna, quarta voce di un puzzle i cui segreti e le frasi non dette sono spiragli su un passato di sacrifici e rinunce.

Quattro voci e quattro modi diversi di raccontare un ricongiungimento in cui ognuno dei personaggi creati dalla penna di Spiedo si rivela già dalle prime pagine come una personalità credibile, distinta, dalla forte caratterizzazione. Non è mai facile dosare gli spazi e i tempi in una narrazione i cui i punti di vista si alternano capitolo dopo capitolo ma anche in questo caso si evince l’abilità e la maturità di un autore che, già al suo secondo libro, è in grado di gestire una trama strutturata, complessa, ricca di rimandi e salti temporali.

Più volte nel corso della lettura ho sentito il bisogno di allontanare lo sguardo, fermarmi, prendermi il tempo per riflettere su questi personaggi come fossero persone vive e tridimensionali, destinate a confrontarsi in un presente comune che mi ha riportato alla mente le tinte dense ma sfumate di un film di Nanni Moretti infiorettato da punte tragicomiche dell’Özpetek più ispirato. Un continuo rincorrersi di contrasti tra la durezza dialettale dei dialoghi e la tenerezza d’insapettati slanci d’umanità, uniti alle grottesche rivelazioni di un oracolo improvvisato in contrapposizione al cinismo di un presente che minaccia di fagocitare ogni sogno, ogni aspettativa, lasciano al lettore l’impressione di essersi seduto a una tavola di anime reali, riconoscibili, intrise di limiti e timori fin troppo umani.

In un’epoca in cui tutto scorre veloce, tutto dev’essere estremizzato ed esplicitato per non correre il rischio di essere frainteso o ignorato, l’opera di Spiedo si prende i suoi tempi, allarga il campo, ci insegna a muoverci con suoi ritmi, dilatando il momento della riconciliazione attraverso una prosa matura, ricercata, sempre consapevole, frutto di un percorso di continua ricerca e formazione che già alla seconda prova dimostra di aver trovato una sua ideale collocazione autoriale. Nel libro di Spiedo non si ride, si sorride, non si piange ma ci si intenerisce di un’empatia che non è mai pietismo ma un genuino tributo alle nostre più intime fragilità.

Stefano Bonazzi

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Non muoiono mai

Francesco Spiedo

Fandango

18 euro — 272 pagine

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