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Hilary Tiscione anteprima. Liquefatto

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Alessandro Polidoro Editore ci consegna un romanzo potentissimo scritto da Hilary Tiscione, Liquefatto riscrive il concetto di disintegrazione e destrutturazione, un fiume in piena di disfacimento. Emozioni corroboranti che scivolano via.

Maddalena è una donna incastrata in un’architettura fatiscente di alcool, droghe e relazioni disfunzionali, fino a quando l’uomo che tradisce regolarmente, Romano, le regala due biglietti per visitare Los Angeles. La città degli angeli viene raggiunta da una Maddalena con gravidanza inaspettata e l’amica Lia, insieme si mettono sulle tracce di Tito, una vecchia conoscenza che conduce una vita spericolata.

I tre poi decidono di raggiungere la città del peccato lasciandosi alle spalle gli angeli, destinazione Las Vegas. Hilary Tiscione riscrive On the road di Kerouack facendo attraversare il deserto del Mojave ai suoi personaggi, traslandoli poi all’hotel El Cortez dove un’emorragia emotiva porterà a un totale annullamento psico-fisico di Maddalena, la crisi interiore fatta di notti insonni e inferni desertici la porta a confrontarsi con le sue verità incontrollabili. Con una scrittura affilata e ossessiva Hilary Tiscione spacca le dighe della retorica per travolgere i suoi lettori con un fiume di ansie, paure e drammi liquefatti.

Cristiano Saccoccia

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Apre e chiude la bocca facendo intravedere il cavo orale. L’arcata dentale superiore picchia contro quella inferiore. Romano mastica un chewing gum. Fa un rumore appuntito. Rimescolo il caffè con un cucchiaino perché lo zucchero sul fondo della tazzina si sciolga bene. Lo mando giù veloce. Ha sempre masticato così? Dovrei dirglielo, penso, che la mandibola lo sta tradendo. Mi prende il senso di colpa, come quella sera, quando mangiava la minestra. Era calda sì, ma non al punto da doverla aspirare con forti aliti d’aria per non fondere la carne del palato e quella delle guance. Se ne stava seduto sulla sedia, un filo ingobbito con le borse sotto gli occhi a dirmi che la brodaglia era buona. Penso a mia nonna, nell’ultimo periodo della sua vita, quando aveva smesso di portare la dentiera e succhiava il cibo liquido. Poverina. Valuto di chiedergli perché lo fai? Guardati tu, mi dico, che lo tradisci peggio di quanto faccia la sua mandibola. Sto zitta. Lo guardo per un attimo; è sempre bello. Mi ha detto ciao entrando in cucina poco fa e non ho risposto. Mi sono presa il diritto di provare tenerezza per lui, di punirlo perché mangia, respira, esiste e mostrarmi insofferente per quei versi che un tempo erano suoni. Adesso però lo dico: ciao. Lui smette di masticare. Questa sera non ci sono, continuo. Esco con le amiche. Divertiti. Grazie. Di ieri sera mi resta lo sperma secco che ho sulla pancia. Sto coricata sul divano a grattarlo via con il dito. Poi vado a lavarmi. Sotto la doccia lo frego con del sapone in una mano, mentre con l’altra formo una conca e la tengo in mezzo alle gambe a fare da tappo. Ho paura che lo sperma mi s’infili dentro animandosi nell’acqua, risalendomi vivo nell’utero. Mi basterebbe incrociare le gambe e lasciare scorrere l’acqua sulla pancia. Stamattina mi sono svegliata sola. Nuda. Coperta da un lenzuolo umido dentro una camera fredda, sotto un soffitto rigato dalla muffa. Passo una mano fra i capelli, me ne resta qualcuno tra le dita. Me li sono fatti tirare? Ripenso a come ho cercato le mutande e le ho trovate arricciate ai piedi del letto. Le ho infilate con un po’ di vergogna. Ho tirato bene le lenzuola sotto gli angoli del materasso, composto i cuscini in pendant con le tende in un ordine che pareva casuale. Mi sono vestita, ho passato le mani sotto gli occhi per togliere i grumi di mascara della sera prima. Sono uscita. Di ieri sera ho in mente solo che, il mio – non so bene come chiamarlo – non ha messo il preservativo. Oltre a mollarmi come una carcassa sul letto, se n’è sbattuto le palle di salvaguardare le mie ovaie, era troppa la voglia di scoparmi. Un’altra cosa che ricordo è la bottiglia di prosecco mediocre che ha stappato per stordirmi. Aveva intontito anche Lia, andata via mentre mi promettevo di non aprire le gambe. Da quell’istante, un po’ stavo sotto, un po’ stavo sopra, un po’ di lato e a un tratto a carponi con lui dietro di me che mugugnava. La notte mi tormentano i sensi di colpa. Allungo un piede contro la gamba di Romano come se fosse per sbaglio, come se il piede mi fosse sfuggito dal controllo dentro uno scatto di quelli che si fanno con gli incubi. Così, il piede, gli tocca la gamba e lo lascio lì, sotto il suo polpaccio e faccio sentire che ci sono. Sto coricata nell’estremità opposta alla sua, come fossi un paraspifferi di quelli attorcigliati come caramelle davanti alle porte. Una salsiccia di stoffa che dorme e non russa, attenta nei movimenti, solo un piede va a stuzzicare una gamba del cornuto. Il cruccio è tale che quel movimento tenta, penoso, di chiedere scusa. Sento che lui, a volte, è sveglio quando mi avvicino piano rasente al lenzuolo e non si sposta. Non so se lo fa perché si fa bastare quel poco di pelle, perché non ci vede nulla di male, perché è normale sfiorarsi gli arti la notte. Finge di dormire. Altre volte dorme davvero. Gli sussurro buonanotte, anche se non mi sente. Nel letto, sotto le coperte, mi dico sono salva. Ma ho la coscienza sudicia. Il giorno dopo mi lamento dell’arsura sul mento, tutto screpolato e devo metterci la crema. Una volta gli ho raccontato che è colpa del detersivo con cui lava le lenzuola, sicuramente è quello a farmi allergia, ho detto. Come quando la nostra donna di servizio aveva giurato che era entrato un gabbiano dalla finestra del bagno e aveva fatto la cacca sul tappeto che si era scolorito in piccole chiazze perfettamente tonde, alcune più grandi e altre più piccole, poi se n’era uscito. Lo sapevo che era stata lei a far cadere della candeggina sul tappeto. Non ho detto niente per non metterla in imbarazzo. Come fa Romano, non dice niente.

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